di Jeanne Ralston | Fotografie di: Robb Kendrick
Un tour di due settimane tra i grandi parchi nazionali dell'Ovest americano: dai geyser di Yellowstone al Glacier National Park al confine settentrionale del Montana. Una vacanza itinerante su un camper lungo otto metri che è anche l'occasione per "ritrovarsi in famiglia" tra la madre giornalista, il padre fotografo e due figli adolescenti ormai prossimi a cominciare una vita autonoma.
Il Firehole river non mi lascia avanzare. Le sue acque tumultuose mi respingono mentre mi aggrappo a una roccia scivolosa. Sto cercando di risalirne il corso nel Parco nazionale di Yellowstone, il più celebre degli Usa, dietro ai miei figli: Gus, 16 anni, e Jeb, 14. Il primo è un nuotatore agonistico, l’altro fa parte di una squadra di arrampicatori. Tagliano con disinvoltura la rapida verso una sporgenza della roccia, dalla quale ci lanceremo per ridiscendere la corrente. Mentre lotto contro la forza dell’acqua mi chiedo se non sono troppo vecchia per questo genere di cose: i miei figli crescono ed è sempre più difficile per me fare ciò che fanno loro. Questa vacanza itinerante in famiglia mi ricorda che a mio marito, Robb, e a me non resta più molto tempo per viaggiare insieme ai nostri ragazzi, prima che comincino a girare il mondo da soli.
Ci muoviamo con un camper a noleggio lungo otto metri: il nostro itinerario ci porta attraverso il meglio dell’Ovest americano da Yellowstone, nel Wyoming, a nord, al Montana, nel Glacier national park. Una convivenza forzata con due adolescenti che speriamo possa funzionare, complice la lontananza da internet: vorrei riuscire a essere una madre connessa pienamente con i propri figli, ma senza ricorrere al web. Non abbiamo un piano prefissato. Con tanti campeggi fra cui scegliere, seguiamo l’estro del momento. «Da dove venite?» ci domanda il nostro vicino; è una sorta di benvenuto standard, nell’area di sosta Grant Village, sulle rive dello Yellowstone lake. Si presenta come Wayne dal Wisconsin, è in viaggio col suo camper, la moglie e tre figli che, in questo momento, stanno scorrazzando in bicicletta lungo il lago. Accanto a lui, un barbecue e una tavola con un’elegante tovaglia a fiori. «Viaggiate con stile», gli dico. «Lo facciamo da tempo», risponde, e aggiunge carbonella al fuoco. «L’intenzione è cercare di essere come a casa. Una casa on the road.»
L’aspetto più bello di viaggiare in camper, aggiunge Wayne, è l’assenza di domande tipo “siamo già arrivati?”. «In un certo senso, siamo sempre già arrivati». E la conversazione prosegue secondo gli standard di questo genere di vacanza: dove siamo stati, dove andremo. Quando sente che il giorno successivo abbiamo in programma un’escursione a piedi, Wayne insiste a farci comprare un repellente per orsi. Ho visto i segnali che raccomandano di avere con sé lo spray al peperoncino, così dopo cena ci rechiamo al negozio del campeggio per comprare una bomboletta; e una tovaglia.
Obiettivo del giorno successivo: Cascade Lake, una specie di pozza in mezzo a una prateria alpina al centro di Yellowstone. I ragazzi stanno vicini, dietro a Robb, con la bomboletta spray appesa alla cintura. Il parco è noto per il geyser Old Faithful, ma soprattutto per gli animali selvatici: la Lamar valley che abbiamo appena visitato è detta il Serengeti del Nordamerica per i suoi lupi grigi (reintrodotti nel 1995), gli alci e gli orsi, sia grizzly sia bruni. Nel parco ne vivono circa 1.200, più e meno; uno ogni otto chilometri quadrati circa, calcolo. Mentre avanziamo in mezzo agli abeti, la macchina fotografica di Robb urta l’erogatore della bomboletta e fa partire una nuvola di gas urticante in faccia a Gus, che lancia un urlo e si piega in due, tossendo.
Grazie al cielo, la nube di gas si dissolve in pochi minuti; non possiamo però fidarci dello spray, così suggerisco di metterci a parlare a voce alta per spaventare gli animali. I ragazzi si adeguano e fingono di essere sul set di un film horror in cui veniamo attaccati da un orso. L’horror porta alla fantascienza: Gus dichiara che da grande vuole fare l’ingegnere aerospaziale per progettare astronavi che scoprano la vita intelligente che sicuramente c’è là fuori. Provo un’improvvisa gratitudine per gli orsi: è da tempo che Robb e io non abbiamo l’occasione di osservare a lungo quello che i nostri figli stanno diventando. Ora invece parlano con noi come fra pari.
Arriviamo a Bozeman dopo qualche altra giornata di escursioni e di sport: è una località circondata dalle montagne che appare spesso nell’elenco dei posti più belli degli Stati Uniti. Qui vivono alcuni nostri amici, pure loro con figli adolescenti, che ci portano a fare tubing – discesa con l’aiuto di ciambelloni gonfiabili – sul Madison river. È un’esperienza che riservo a Robb e ai ragazzi: e quando li raggiungo, portando il camper sei chilometri più a valle per recuperarli, la gioia e l’euforia che illuminano i volti dei miei figli mi si imprimono nella mente come un’immagine indelebile, alla quale ripenserò quando saranno ormai grandi.
L’ultima tappa è all’Iceberg lake, nel cuore del Glacier national park, all’estremità settentrionale del Montana. È un piccolo lago di un blu intenso da Caraibi, pieno di iceberg, come un cielo azzurro colmo di candide nubi: alcuni piatti, altri appuntiti, altri ancora non più grandi di un letto a due piazze. I ragazzi insistono per salire su una di queste bianche isole galleggianti e dopo avere saggiato quella più vicino alla riva con un bastone, ci balzano sopra. E da lì saltano su quella accanto; in un baleno sono al centro del lago. Resisto alla tentazione di richiamarli. Sono abbastanza grandi per badare a se stessi. Anzi: sono ormai loro a prendersi cura di me.
L’altro giorno, quando ero in difficoltà nelle rapide del Firehole river, è stato Jeb, il rocciatore, a tirarmi fuori dai guai afferrandomi mentre stavo per perdere l’equilibrio. E mi ha fatto pensare a tutte le volte che ero stata io a farlo. Alla fine, dopo esserci tuffati nella corrente e averla ridiscesa insieme, giunti a un tratto di acqua tranquilla Gus mi ha gridato: “Ce l’hai fatta, mamma!”. Sì, ce l’avevo fatta. Ed era una lunga strada che avevo percorso, in quella discesa.
(traduzione di Elena Del Savio)