Bhutan, la ricerca della felicità

Stefano Brambilla e Marta GhelmaStefano Brambilla e Marta GhelmaStefano Brambilla e Marta GhelmaStefano Brambilla e Marta GhelmaStefano Brambilla e Marta Ghelma

Quarant’anni fa il piccolo paese stretto tra India e Cina si apriva al turismo. E dichiarava di basarsi non sull’economia, ma sulla felicità degli abitanti. Con quali risultati? Abbiamo chiesto a loro se sono felici (a fianco, la presentazione di Stefano Brambilla, autore del reportage)

La strada si inoltra tortuosa tra querce ricoperte di licheni pendenti, felci e grandi pini che ricordano antiche stampe cinesi o scenari di una Terra di mezzo. Le scimmie saltano mollemente di ramo in ramo, mentre sobbalziamo all’ennesima buca scendendo verso Punakha, duemila metri sotto di noi. D’altronde, non ci sono alternative: questa è l’unica direttrice che collega l’antica capitale del Bhutan alla nuova – a dividere Punakha e Thimphu, un passo di 3100 metri da cui si scorgono imprendibili Settemila himalayani.

All’improvviso, sirene: arriva un corteo d’auto, massima precedenza, la targa della vettura in mezzo recita “Bhutan-5”. Bhutan-5? Ma allora sono i reali! La famiglia reale certo non può viaggiare con una targa qualunque. Dietro il finestrino scorgiamo l’altero profilo di una figura femminile, sarà forse la regina ventiquattrenne? La soave creatura riprodotta su spille, poster, cartoline, fotografie appese sopra la stufa o la porta di casa? Sempre benedetti siano i re del Bhutan. (Certo, se rifacessero le strade… ma la regina non si lamenterà degli scossoni?).

Il Bhutan è come questa strada accidentata. O come quei dadi che il monaco buddista ci mette in mano dopo l’offerta di rito, vediamo cosa ci riserva il futuro. O come quelle freccette che decine di ragazzini rapati in tonaca rossa lanciano verso un bersaglio lontano. Non sa cosa ci sarà dietro la curva, il Bhutan, o se il dardo colpirà il bersaglio. È arrivato per ultimo nel grande gioco a scacchi del pianeta, gettando al vento in un attimo l’isolamento di millenni, saltando le tappe, passando direttamente dall’aratro a Desperate Housewives. Difficile non diventare ubriachi di mondo. Eppure è chiaro che il Regno del drago (Druk Yul, così si autodefiniscono i bhutanesi) ci sta provando, a resistere alle lusinghe del progresso, o meglio, a contaminare la tradizione con soluzioni che definire anticonformiste è dir poco.
Prendiamo la storia della felicità, quella che quarant’anni fa ha fatto scoprire al mondo che tra Cina e India esiste uno Stato chiamato Bhutan. Un bel giorno del 1974 il quarto re (oggi è in carica il quinto), l’uomo per cui ogni donna bhutanese si strapperebbe i capelli, s’inventò che il Bhutan dovesse basare la sua crescita non tanto sul denaro quanto sulla felicità. A ogni suddito sarebbe stato chiesto che cosa l’avrebbe reso felice; e un comitato di saggi avrebbe avuto l’onere e l’onore di mettere nero su bianco le regole (ovvero le leggi) della felicità.

«Le vedete queste? Eh eh, le ho comprate di contrabbando» ci mostra orgoglioso un ragazzo mentre tira fuori dal pacchetto una sigaretta. «Però fate finta di niente, nessuno mi deve vedere, le fumo solo nel solaio di casa mia... altrimenti sono guai». La felicità, scopriamo, significa non permettere a nessuno di acquistare o vendere tabacco. E ovviamente di fumare: il fumo non rende felici. Così come non rende felici avere troppe macchine (inquinano, logico), usare sacchetti di plastica (idem), affiggere cartelloni pubblicitari (probabilmente il Bhutan è l’unico Paese nell’universo dove per le strade non campeggiano la sagoma della Coca-Cola o la M di McDonald’s). Non rende felici neppure avere turisti rompiscatole in giro, potrebbero rovinare tutto. «Avete presente quello che è successo a Kathmandu qualche decennio fa, quando in città sono arrivate orde di giovani zaino in spalla e facili costumi?» ci spiega Norman Luxemburg, manager dell’hotel Uma Paro. «Ecco, qui hanno deciso di non correre il rischio: meglio pochi turisti ma buoni». Così, dal 1974 ­– anno in cui il primo “turista ufficiale” mise piede nel regno – in Bhutan il turismo fai da te è proibito, ogni visitatore deve essere accompagnato da una guida, lo Stato deve sapere in ogni momento dove sei, cosa fai, dove vai. «Anch’io, che lavoro regolarmente al Tourism Council of Bhutan, devo dichiarare ogni mio movimento fuori città» ci racconta Elizabeth Abusleme, una ragazza cilena trapiantata a Thimphu. Come dire: gli stranieri li vogliamo, ma meglio che siano pochi, danarosi (per viaggiare in Bhutan si pagano almeno 200 dollari Usa al giorno: ma è tutto compreso) e non prendano troppa iniziativa. «Poi però lo Stato manda i ragazzi più bravi all’estero a studiare: come si fa a pretendere che, al ritorno, continuino a vestire il costume tradizionale e a vivere soltanto della loro terra?» si chiede Norman.

Felicità e libertà, libertà o felicità. Continuiamo a pensare a quanto sia sottile il confine tra le due parole, e labile l’equilibrio, mentre saliamo il ripido sentiero che porta al Tiger’s nest, il nido della tigre, il più famoso tra i monasteri bhutanesi, attaccato alla falesia come una ventosa al vetro. Certo, il buddismo aiuta o perlomeno dovrebbe aiutare a vivere senza troppi grilli per la testa: la nostra guida ci spiega quali sono i veleni della mente, quali le virtù, quali gli obiettivi di ciascuno, quali i mezzi per raggiungerli. Nessun concetto del peccato, nessun senso di colpa. E viene spontaneo sorridere, arrivando al tempio, immersi in una foresta di bandiere sventolanti. Per un momento ci si sente elevati, migliori. Sarà il fiato corto, saranno i colori: il viaggio in un Paese così profondamente buddista non potrà mai essere un viaggio in bianco e nero, anche se le risaie a gennaio sono spoglie, se il cielo talvolta minaccia pioggia o neve. Ci pensano i vessilli a pennellare il paesaggio, i disegni sulle pareti dei templi, le statue, le vesti dei monaci, le offerte in technicolor sotto gli altari – ai piedi di quello più sacro del Tiger’s nest, dove siamo solo in due europei tra decine di bhutanesi in pellegrinaggio, annotiamo tazze d’acqua, stoffe, statuette dorate con collane rosse, fiori finti, cracker alla patata, foto del re, un aspersorio con penne di pavone, tubi di patatine Pringles con l’incenso che sporge fumante. Anche le architetture dei lakhang e degli dzong, rispettivamente i templi e i centri religioso-amministrativi sparpagliati un po’ ovunque tra le valli, sono colorate, bellissime nei loro elementi sempre uguali, rifatti e restaurati nei secoli dopo ogni incendio e ogni terremoto. Rimaniamo a bocca aperta, camminando sotto i porticati dello dzong di Punakha, maestosa costruzione in riva a un limpido torrente di montagna, dove vengono incoronati i re e tenuti i festival più spettacolari del Paese. I ragazzini vestiti di rosso corrono tra scale e balconate mentre i raggi dell’ultimo sole penetrano nei cortili tra un edificio e l’altro. Potremmo essere stati trasportati nel Seicento e non noteremmo nessuna differenza.

 

Ma poi i bhutanesI sono davvero felici? Perché se glielo chiedi ti rispondono tutti di sì, anche se vivono del loro piccolo orto o del latte di yak. «Amicizia, famiglia e devozione: questi sono i principi fondanti del nostro popolo» spiega orgogliosa la nostra guida, mani dietro la schiena, calze lunghe tirate fino alle ginocchia, vestito tradizionale (il gho) ben spolverato ogni giorno. Sarà anche che vivere in pochi ­– circa 700mila persone – in un territorio grande poco più della Svizzera può aiutare a respirare aria migliore. Sarà che c’è un alleato formidabile appena a sud che provvede a fornire infrastrutture e manodopera (il Bhutan è legato da tempo all’India, mentre non nutre simpatia per la Cina). Sarà che le montagne sono fertili, producono riso, frutta e verdura a non finire, i mercati sono stracolmi di arance, cavoli e peperoncini – e noi che ci aspettavamo un Paese flagellato dal freddo, quando invece è gennaio e camminiamo in maglietta. Sarà che i bhutanesi sono fatti così, e quando, sei anni fa, sono stati chiamati a votare per la prima volta nella loro vita – il re aveva deciso che la monarchia doveva diventare costituzionale – hanno votato in massa uno dei due partiti esistenti, e l’anno scorso, alla seconda votazione, si sono tutti espressi per l’altro (come mai? «Mah, abbiamo provato un partito, adesso proviamo l’altro» è la risposta più frequente). Sarà che tutto è riassunto in un episodio di una decina d’anni fa. «Abbiamo organizzato un’amichevole di calcio tra le due nazionali più scarse del mondo, la nostra e quella caraibica di Montserrat» racconta la guida. «Loro sono venuti a giocare da noi. Però, poveretti, non avevano supporter... Così la metà dello stadio si è vestita con i colori della loro bandiera e ha fatto il tifo per loro. Per un’isola che non sapeva neppure dove fosse».

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Fotografie di: Stefano Brambilla e Marta Ghelma
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