di Donatella Percivale | Fotografie di: Luca Percivale
Il 18 novembre 2013 l’isola fu sconvolta da un’alluvione storica. A distanza di cinque mesi poco o nulla è cambiato. E l’estate è in arrivo...
Nei paesi la chiamano la memoria dell’acqua: è l’impronta che il fiume mantiene, dopo aver sfiorato terre e pietre, nel corso degli anni. A studiarla ci provò un immunologo francese, Jacques Benveniste, ma la comunità scientifica, alla fine degli anni Novanta, la bocciò senza remore. Nel caso però dell’alluvione causata dal ciclone Cleopatra che ha sconvolto la Sardegna lo scorso anno sembra quasi che sia vera... I fiumi, i corsi d’acqua, mantengono intatto il ricordo dei luoghi che li hanno accolti. E quando boschi e foreste vengono offesi da strade e cemento, quando la schizofrenia dei piani urbanistici prolifera sugli alvei dei fiumi impedendo il naturale e libero scorrere delle acque, allora è la fine del mondo. Quel pomeriggio del 18 novembre, una bomba di acqua e sabbia è esplosa sui paesi della Sardegna, un’onda di piena millenaria che ha causato la morte di 17 persone e 2.700 sfollati. Quando l’isola in ginocchio ha smesso di contare le sue vittime, siamo andati a cercare gli uomini del fango: abbiamo ascoltato la loro disperazione, accolto le loro preghiere: «Non abbandonateci». Non lo abbiamo fatto. A distanza di cinque mesi da quel 18 novembre, siamo ritornati nei paesi colpiti: Terralba, Uras, Oliena, Torpè. Una mappa della devastazione che, dal Campidano alla Gallura, ha mutilato il volto verde dell’isola.
Rina e Gesuino Peddis erano già a letto in quella notte che ha sconvolto per sempre la loro vita. Per 65 anni sono andati a dormire insieme, nella grande casa costruita nel centro del paese.
Si sono salvati grazie alla caparbietà di un nipote che li ha messi in salvo sulla macchina. Alle 4 del mattino la loro casa è collassata, le fondamenta portate via dalla piena di fango vomitata dalla montagna. Eppure, i Peddis si considerano persone fortunate: anche il figlio Sergio quella notte si è salvato. La sua casa, costruita sul letto del fiume che negli anni Cinquanta bagnava Terralba (Or), in via Rio Mogoro, ha resistito alla piena. «Stavo guardando il telegiornale » racconta «quando ho visto un’ombra nera avvicinarsi alla finestra, sono uscito di casa, ho cercato di salire in macchina, ma in pochi secondi il fango mi aveva già imprigionato. Allora ho chiamato mia moglie, mio figlio, il cane e siamo scappati sul tetto».
Sono passati lunghi mesi, e nulla è cambiato. «Il Comune, a febbraio, ha pubblicato una lista dei rimborsi, abbiamo subito migliaia di danni ma ci spettano soltanto 358 euro».
I genitori ora vivono in un piccolo appartamento in affitto, hanno perso tutto, ma si fanno coraggio: «Ci hanno promesso che la nostra casa sarà ricostruita». Rina e Gesuino sperano, ma cinque mesi dopo su quelle macerie è sceso il silenzio.
Eraclito scriveva che «l’acqua è tante cose: è fiume e mare, è dolce e salata, è nemica e amica», «è il principio e la fine». Davide Floris, capo dei volontari della Protezione civile di Uras (Or), era al funerale del fratello ad Alghero, quando gli hanno telefonato. «Il rio Tamis ha tracimato, in paese stanno scappando tutti, c’è bisogno di te, torna». Il principio e la fine. Davide ha scelto di ripartire dal principio: mettere in salvo le persone, trovare cibo, coperte, vestiti, occuparsi di quelli più soli. Una donna di 64 anni non ce l’ha fatta. L’hanno trovata affogata, sotto il tavolo della cucina. Anche il marito è morto poco tempo dopo. L’acqua, l’origine della vita, stavolta aveva seminato morte e disperazione.
«C’era paura, la gente non sapeva cosa fare, dal monte Arci colava una lava di pietre e di fango. La seconda piena ha colpito anche la nostra casa, il fiume ha inghiottito il giardino e sette metri di muro di recinzione, nelle camere l’acqua era alta oltre un metro e la macchina posteggiata galleggiava come una barca». Oggi, alla fatica della ricostruzione si aggiunge la rabbia. «I soldi nelle casse dei Comuni ci sono, ma sono bloccati dal patto di stabilità. Ci hanno promesso 90 milioni di euro, cosa aspettano a darceli?».
Il parco delle sorgenti di Su Gologone, nel territorio di Oliena (Nu), è un monumento naturale del Parco nazionale del Gennargentu e Patrimonio dell’ambiente: 35mila presenze all’anno per assistere alla grande bellezza ai piedi del Supramonte.
Quella notte, quando il cielo ha rovesciato milioni di metri cubi d’acqua, la valle si è trasformata in un catino di fango. Oggi il parco è l’immagine del Day after: alberi spezzati, la chiesa devastata, panchine trascinate dalla furia e rimaste appese sui rami. «È stata una catastrofe» racconta Valentino Carta, assessore all’Ambiente del Comune di Oliena. «Un territorio di 17mila ettari rovinato. Imprese agricole e allevamenti, strade rurali e coltivazioni: tutto è stato distrutto». I ponti di Badu ’e Chercu, che collegano Nuoro a Oliena, sono l’emblema del ciclone: tronchi di querce, arbusti, massi franati li decorano impietosamente. «Dobbiamo fare presto per riportare il territorio alla normalità, o allevatori e operatori turistici busseranno presto alle porte della Caritas».
«In 24 ore è scesa una quantità di pioggia pari alle precipitazioni di sei mesi. La piena della diga sopra Torpè (Nu) è da considerarsi una piena millenaria». Così Franco Gabrielli, capo della Protezione civile, davanti alle immagini della furia di Cleopatra. Un’onda straordinaria, uno tsunami di 100 milioni di metri cubi di acqua che ha travolto la valle dopo aver superato di quasi cinque metri il colmo dello sbarramento della diga. Giovanni Chessa, 49 anni, quella sera era a casa assieme alla sua famiglia: «Mi telefonarono per avvisarmi della rottura degli argini del rio Posada, non feci nemmeno in tempo a scappare che la schiuma del fiume era già oltre i cancelli». Si sono salvati grazie a due uomini di Siniscola che nella notte, a bordo di un gommone, hanno navigato tra le campagne trasformate in fiume e li hanno raggiunti sul tetto di casa, stremati da freddo e pioggia, quando l’acqua aveva raggiunto i tre metri di altezza.
A distanza di cinque mesi, l’agro di Torpè ha il volto mutilato dalla furia: decine le serre accartocciate e gli agrumeti trasformati in cave di sabbia. «Il Comune all’inizio ha concesso 200 euro a persona per l’affitto, ma adesso dobbiamo cavarcela da soli. Noi ora stiamo cercando casa in paese, perché una cosa è certa: in campagna non ci abiteremo più».
L’acqua ha la sua memoria, Giovanni lo sa.