di Vittorio Emiliani
Molti la conoscono solo per aver dato i natali a Monica Bellucci, ma la cittadina umbra è soprattutto legata al nome di Alberto Burri, di cui conserva molte opere all'interno del quattrocentesco palazzo Albizzini. L'occasione per scoprire un piccolo tesoro italiano.
Il Tifernum Tiberinum, Città di Castello (Pg) o Castello come la chiamano semplicemente i suoi abitanti, ha un patrimonio artistico invidiabile e però, pur essendo su una grande arteria come la E45, non esibisce i suoi tesori, non si sporge a richiamare folle di turisti. Forse il fascino che esercita sta proprio in questo suo non voler essere troppo turistica. Andiamo subito a scoprire il più stupefacente e moderno dei suoi gioielli. Fuori città, sulla strada statale 3bis, a Rignaldello, in aperta campagna, ecco il vasto stabilimento dipinto di nerofumo che è stato l’ultimo immenso studio del pittore tifernate Alberto Burri, uno dei grandi del Novecento nel mondo. Nei capannoni dell’ex essiccatoio dei tabacchi esotici spiccano sulle pareti enormi tele: alcune nero su nero, altre dove il nero è scandito con un colore aureo, da pittore classico, raffaellesco, altre ancora coloratissime, come appena riscoperte sotto la calce. «Mai, credo, c’è stata identificazione più completa fra un artista e la città natale» ha scritto di lui lo storico e critico d’arte Cesare Brandi.
in origine medico, Burri ha cominciato a dipingere nel campo di prigionia di Hereford (Texas) sperimentando i primi materiali insoliti. Tornato a casa, ha suscitato presto consensi entusiasti e clamorosi dissensi. Prima coi suoi sacchi di juta lavorati, lacerati, immersi nel colore o nel catrame. Poi coi materiali plastici strappati, bruciati, sfiniti, quasi reperti bellici. Il primo museo i concittadini glielo hanno dedicato in pieno centro storico, nel quattrocentesco palazzo Albizzini. Dove si conferma – sembra incredibile – l’armonia perfetta fra l’astratto provocatorio di Burri e la classicità di quella architettura. L’artista ha voluto che queste collezioni rimanessero integralmente nella sua città, alla quale era visceralmente legato. Senza dispersioni di sorta. A Città di Castello bruciava ancora la ferita del maestoso Sposalizio della Vergine dipinto dal giovane Raffaello e finito a Milano, alla Pinacoteca di Brera, nel primo Ottocento. Un piccolo, prezioso Raffaello fortunosamente è rimasto: il Gonfalone della Trinità, rovinato per essere stato usato come copertura di una finestra e tuttavia ben riconoscibile. A questo punto sarete già nella Pinacoteca civica di palazzo Vitelli (la famiglia egemone di Castello) dai graffiti bianchi e neri, con una quadreria di tutto rispetto.
C’è un quadro molto speciale da vedere anche nel recente Museo diocesano: un Rosso Fiorentino dei più lividi, tragici, nevrotici (ed è una Resurrezione), dipinto ai tempi della terribile peste del 1527. Lì vicino, nel museo ricavato nelle case dei canonici inglobando una stradina, fra tanti argenti di scuola senese spicca un pastorale con un piccolo angelo che vola. E si può volare davvero nel triangolo Città di Castello-Anghiari-Sansepolcro.