di Olivia Stren | Fotografie di: Sisse Brimberg, Cotton Coulson
Humphrey Bogart e Edith Piaf, Ingrid Bergman e Saint-Exupéry. Basta il nome di questa città marocchina per evocarne storie e leggende. Da scoprire o rivisitare con nostalgia. E low budget.
Sono finita nelle pagine di un romanzo di F. Scott Fitzgerald. Questo pensiero mi colpisce mentre raggiungiamo il nostro albergo a Casablanca. È uno dei più nuovi della capitale culturale del Marocco e occupa un palazzo degli anni Trenta. Ciascuna delle sue suite è contraddistinta da un nome e un design particolare, in onore di una figura simbolo del periodo déco: Scott Fitzgerald, Colette, Coco Chanel, Jean Cocteau. Il fattorino accompagna mia madre e me su per una scala sinuosa, coperta da una passatoia rossa, e ci conduce alla stanza Fritz Lang, intitolata al regista di Metropolis, film del 1927. Il fattorino appoggia a terra le nostre valigie e, senza alcun motivo apparente, rivolgendosi a mia madre esclama: «Lei ha il cielo e la luce del Marocco negli occhi, signora». Al che mia madre, con i suoi occhi cielo-e-luce ora pieni di lacrime, si porta la mano al petto e risponde: «Sono di Casablanca e ho il Marocco nel cuore, signore».
Claude Stren, nata Schétrit – mia madre –, venne alla luce in un taxi a Casablanca nel 1941, un anno prima che uscisse il film di Michael Curtiz. A me i suoi primi anni di vita sono sempre sembrati una specie di film: affascinanti nel loro tumulto. Se la Casablanca di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman – filmata, in realtà, negli studios di Burbank, in California – era una storia di nostalgia e perdita, anche la Casablanca di mia madre lo era. Il suo Marocco, un Paese che lei era stata costretta ad abbandonare per motivi politici e religiosi più di 50 anni prima, e da allora aveva sempre sognato con nostalgia, mi aveva instillato l’aspirazione a una vita più alta, più spettacolare.
Sono nata nel modo banale, in un ospedale, in Canada, e sono cresciuta nella tranquilla, comoda Toronto, con i suoi cieli scontrosi, cupi, ascoltando i racconti sulla città di mia madre, le sue luci taglienti, i suoi edifici di un bianco abbagliante, le sue burrascose, ventose coste atlantiche. Per quanto possa ricordare, mia madre e io abbiamo parlato di un futuro, favoloso giorno, quando avremmo visitato Casablanca. Ma lei aveva paura di ritornare in una città che non avrebbe riconosciuto. Così, abbiamo lasciato che Casablanca crescesse rigogliosa nel regno della fantasia: fino a che mia madre ha festeggiato il suo settantesimo compleanno e abbiamo prenotato i biglietti per il volo. «Ho paura di affrontare il passaggio del tempo», mi ha confessato sorvolando l’Atlantico. Non gliel’ho detto, ma anch’io ero nervosa. Ora, dalla terrazza sul tetto del nostro albergo, vediamo Casablanca distesa ai nostri piedi: case nello stile degli anni Trenta con giardini tropicali sui terrazzi, minareti puntati verso un cielo blu intenso che avrebbe ispirato Matisse. Ma vediamo anche edifici coperti di una patina sporca, con tappeti berberi che pendono da ringhiere arrugginite. Quando i francesi stabilirono il loro protettorato in Marocco nel 1912, lo videro come l’occasione per trasformare Casablanca nel culmine del loro successo coloniale: un fantastico mix di art déco e architettura neoberbera nuovo di zecca in riva al mare. Una Parigi con le palme. Ma dopo la fine dell’occupazione coloniale, nel 1956, la Casablanca di oggi ha carattere completamente diverso. A metà fra L’Avana e Buenos Aires, ha uno splendore da bei tempi andati. Per i turisti è diventata solo una sosta verso le città imperiali di Marrakech e Fès; per i locali, che la chiamano Casa, è una città della finanza soffocata dal traffico.
In cerca di questa città perduta, amata da Jacques Brel e Edith Piaf, partiamo per un tour nel cosiddetto quartiere déco: che è proprio la zona della città in cui mia madre è cresciuta, il vecchio centro della nouvelle ville. Mentre passiamo davanti al Petit Poucet, il locale dove Antoine de Saint-Exupéry era solito fermarsi per un caffè, mia madre si ricorda di una delle frasi da lei preferite di Saint-Exupéry: «Vengo dalla mia infanzia come potrei venire da un Paese». Per mia madre, di questo Paese chiamato infanzia, della Casablanca della sua gioventù, la capitale è il boulevard de Paris, dove è vissuta. Ma quando ci arriviamo è una delusione: la grandiosità è solo nella memoria di mia madre, la strada stretta è fiancheggiata da edifici ingrigiti e scrostati, fra cui lei cerca inutilmente i segni della sua infanzia. Finalmente troviamo, ormai irriconoscibile, la sua casa: e il giardino, ora spoglio e coperto di cemento, dove da piccola si rifugiava con tutta la famiglia durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Poi arrivarono gli americani. «Mi ricordo i tappi di champagne che saltavano, e i soldati, che ci regalavano carrarmati giocattolo e tavolette di cioccolata. Uno di loro abitava da noi, e si innamorò di mia madre. Succedeva a tutti. Era così bella...»
Nel pomeriggio visitiamo la spettacolare moschea di Hassan II costruita nel 1993. Il suo minareto svetta per più di 200 metri ed è coperto da mattonelle colorate brillanti come pietre preziose. Al confronto, il faro di El Hank sembra umile, ma la sua grandezza è nella storia: la sua luce aveva guidato lo sbarco delle forze alleate. «Quel faro mi ha salvato la vita», esclama mia madre.
Il giorno successivo proseguiamo l’esplorazione del quartiere déco con una guida dell’associazione Casamémoire. Visitiamo la cathédral du Sacré Coeur, bianca come una meringa, il parque de la Ligue Arabe, dove mia madre passeggiava da bambina, l’ufficio postale del 1918, con i suoi mosaici da palazzo moresco, e la monumentale banque Al-Maghrib. Mentre passiamo per il boulevard Mohammed V, mia madre ricorda che il sovrano che gli ha dato il nome era molto affezionato a mia nonna. «Che vuoi dire, che il re Mohammed la conosceva?» «Oh sì, era la sua manicure negli anni Trenta. E lei era davvero attraente. Le ha anche chiesto di sposarlo». «E lei ha rifiutato?» «Beh, vorresti vivere in un harem?». Nulla da aggiungere.
Dopo il suo periodo da manicure mia nonna aveva lavorato come cassiera in un cinema. All’epoca ce n’erano molti e oggi sono un segno distintivo della città. Il locale meglio conservato è il Cinéma Rialto, dove Joséphine Baker cantò J’ai deux amours.
La nostra ultima notte a casablanca andiamo al Rick’s Café, ispirato a quello del film, nel vecchio quartiere della medina. Aperto nel 2004, con i suoi archi moreschi, le palme nei vasi, le lampade di ottone è un luogo suggestivo. Mentre sorseggiamo pastis l’orchestrina attacca Que reste-t-il de nos amours: il successo di Charles Trénet degli anni Quaranta, che parla di gioventù perduta e di un giovane amore. Potrebbe essere l’inno di Casablanca e la colonna sonora del viaggio di mia madre. «Sei contenta che siamo venute qui?». «Sì. Casa è più vecchia e triste, ma anche più bella, di quanto ricordassi. Vorrei mettere in valigia un pezzetto della città». «Che bisogno c’è di un bagaglio?», le rispondo. «Tu conservi già il cielo e la luce nei tuoi occhi».