di Giuseppe Scaraffia
Nel quartiere parigino di Passy, la casa museo dello scrittore è oggi aperta al pubblico. Ma un tempo, essere ammessi era molto difficile...
Quando il padrone di casa era vivo, non era facile entrare in quello che oggi è il museo La Maison de Balzac, al 47 di rue Raynouard, Parigi. Honoré de Balzac era pieno di debiti e chiunque poteva essere un agente del fisco venuto ad arrestarlo. Dopo un severo esame il portiere lasciava salire solo chi sapeva la parola d’ordine. Ai piedi delle scale si parava di fronte al visitatore la figlia del romanziere che, ascoltata la formula magica, indicava una costruzione screpolata e malandata ermeticamente chiusa, in cui la scampanellata risuonava sconsolatamente.
Le finestre della sala da pranzo si aprivano su un giardino scosceso. In cucina erano ordinatamente disposte, a portata di mano su apposite mensole, una schiera di pere di ogni tipo. Nella foga del discorso, talora il succo delle predilette decane imperlava il mento di Balzac. Sul suo palato fantasioso, i vini aciduli diventavano prelibati.
Il salotto era viola, come il vestito indossato dalla contessa Han´ska (colei che sarebbe diventata la sua compagna) il primo giorno. L’ampia sedia imbottita, stile Luigi XIII, era assurdamente grande a paragone del piccolo tavolo da lavoro lucidato dal tempo, «testimone dei pensieri, delle angosce, delle miserie, degli sconforti, delle gioie, di tutto!».
Alle pareti si potevano ammirare quadri senza cornici e fastose cornici senza quadri. Solo nel 1846 Balzac poté avere il maestoso candelabro “da ministro” in bronzo dorato che sognava da tanto. Sul tavolo lo aspettava la celebre caffettiera di porcellana bianca e blu con l’abusiva corona dei Balzac d’Entragues.
Sotto lo stemma della casata si poteva leggere il “fatale” motto: «Giorno e notte». A chi gli contestava la nobile ascendenza, lo scrittore rispondeva: «Ebbene, tanto peggio per loro!». Il suo sguardo trasfigurava gli oggetti che lo circondavano, costruendo intorno a essi romanzesche vicende. Una tazza di Sèvres trovata in Germania diventava un capolavoro di Watteau. Un Cristo generosamente attribuito a Bouchardon trionfava nella cornice, opera presunta del celebre Brustolone. Un dubbio Giudizio di Paride era senz’altro un capolavoro di Giorgione: «Il museo me ne offre do-di-ci-mi-la franchi». Un ritratto di donna poteva essere solo di Palma il Vecchio, e di certo «la perla delle sue opere». Se due statuette erano di Cellini, un’altra era più modestamente «di un ignoto genio del Seicento».
Forse era autentico soltanto il delicato schizzo preparatorio del viso di Madame Greuze, fatto dal marito.
Balzac amava i mobili intarsiati e scolpiti. Gli piaceva acquistarli all’estero, durante i viaggi. I pezzi più importanti li aveva scovati invece a Parigi, dall’antiquario Dufour, e subito la sua fantasia aveva tracciato loro un’origine regia. Solamente Maria de’ Medici poteva aver posseduto lo sfarzoso comò d’ebano incrostato di madreperla iridescente.
Lo scrittore si divertiva a fantasticare sulle iperboliche cifre che avrebbe potuto ricavarne, ma stentava a staccarsi da quelle meraviglie.
Il grande busto che lo immortalava, opera di David D’Angers, era stato finito nel 1844, quando Balzac aveva quarantacinque anni. Alla sorella piacquero i netti contorni del naso squadrato, il movimento delle labbra, su cui serpeggiava una benevola ironia. Rimpianse l’impotenza del marmo a tradurre lo scintillìo bruno dorato di quello sguardo che sapeva leggere nella mente altrui e rispondere alle domande prima che venissero poste. Dai suoi occhi, aggiunse, emanavano «getti che parevano uscire da un fuoco interiore e rimandare al giorno la luce, invece di riceverla».