di Sheila F. Buckmaster | Fotografie di: Dave Yoder
Il fascino dell’Italia, della laguna, del carnevale visto da una giornalista americana travestita da Charlot per l’ottava volta. Il che ci fa capire l’attrazione fatale che il nostro Paese esercita sui turisti di tutto il mondo
Sono ancora qui. O meglio, Chaplin è ancora qui. È l’ottava volta che mi trovo a Venezia nei panni di Charlot per il Carnevale. Avere un ruolo nella più bella rappresentazione in costume d’Europa trasforma la mia presenza da osservatore a partecipante. Come Charlot, posso improvvisare, interagire e far sorridere, su uno sfondo che non ha eguali al mondo, la Serenissima. Sono passati già dieci minuti da quando ho incrociato qualcuno, alcuni in maschera, altri no. Come può essere che, in mezzo a questo evento di livello mondiale, un intero angolo della città sia deserto se non per una signora americana di una certa età vestita da Charlot? La stretta calle in cui mi sono avventurata finisce bruscamente sull’orlo di un canale, lungo il quale vedo arrivare una gondola. Non so da dove mi venga l’ispirazione ma mi posiziono in modo che quando la gondola passa il gondoliere mi veda come la sua immagine riflessa: piegata in avanti con la sua stessa inclinazione, in posa come lui, fingo di remare, al suo ritmo, con il mio bastone, una, due volte. Mi vede, mi sorride. E il mio Charlot gongola. Dopo tutti questi Carnevali passati a mascherarmi da Charlie Chaplin sento che finalmente sto entrando nel personaggio. Perché ho visitato tante volte Venezia? E perché vestita da Charlot? Per amore: amore verso Venezia, amore per le maschere e, naturalmente, amore per il piccolo “Vagabondo senza tempo”. Chaplin e io abbiamo in comune il compleanno, il 16 aprile, a 62 anni di distanza. È un legame fortuito che aiuta a spiegare la mia scelta di un alter ego.
Dopo il mio incontro con il gondoliere mi avvio verso piazza S. Marco seguendo i segnali. Fino a che l’apparizione di una splendida, enigmatica figura in campo S. Stefano mi induce a fermarmi. Mi piego in avanti, le mani sul bastone, le punte dei piedi spinte in fuori, la mia testa inclinata di lato come il misterioso personaggio davanti a me. I nostri occhi s’incontrano ma il viso mascherato non esprime altro che placida indifferenza. «Chi sarà mai?» mi chiedo. L’elaborato abito nero e oro della creatura sfiora il terreno, ed è evidentemente fatto su misura; un ampio cappello nero coperto di piume e un parasole pure nero completano l’abbigliamento di questo personaggio che incede con grazia, lentamente, posando per i fotografi. A un tratto, mentre la sto guardando, lei chiude il parasole, pianta il puntale davanti ai piedi e appoggia le mani sul manico, imitando la mia posa. È questo il genere di contatto che il Carnevale permette, nella città più enigmatica del mondo. E questa è la ragione per cui ritorno. A Venezia, in costume, cammino e cammino. E mi guardo in giro. Osservo le vetrine e la gente: uomini in cappello a tricorno e scarpe con la fibbia, donne in abiti lussuosi, confezionati con metri e metri di stoffe preziose, sono la mia droga. Quanto a me, sono sempre accolta da grandi sorrisi e commenti del tipo «Perfetto»… «Complimenti»… «Ah, Charlot. Bravo!». Io sorrido, mi tocco il cappello, e qualche volta faccio un po’ il pagliaccio. Almeno dieci volte al giorno mi chiedono di farmi una foto, con qualcuno accanto. Fedele al personaggio di Charlie Chaplin, non parlo mai. Quando mi domandano da dove vengo – «francese? inglese? italiana?» (non dicono quasi mai «americana?», ce ne sono pochi durante il Carnevale), «donna? uomo?» – io scuoto la testa, agito il bastone e mi allontano.
Dovunque vada ci sono maschere, e fotografi intenti a riprenderle. Nelle piazze, nelle strade, nei caffè le persone in costume incedono, si pavoneggiano, si mettono in posa, attirando un concerto di scatti fotografici. A volte Charlot fa il provocatore, e salta nel mezzo della scena; addirittura arriva a usare il suo bastone per sfidare gentiluomini in parrucca e spadino. Questo tipo di intrusione, di solito, è salutata da un incremento degli scatti, ma a volte vengo presa a male parole per aver intralciato un fotografo concentrato sui costumi. Charlot a Venezia è una creatura abitudinaria. Ogni visita di Carnevale include una passeggiata lungo le Zattere, dove la folla lascia spazio alla luce; e, di notte, un giro in vaporetto. Nell’oscurità, con le luci elettriche tremolanti, sembra che gli stupendi palazzi di Venezia sussurrino «Certo, c’è il pericolo dell’acqua alta, l’inquinamento, il decadimento. Ma non vedi il nostro orgoglio e la nostra capacità di resistere? Finora siamo sopravvissuti». Sotto molti aspetti è un’esperienza toccante per il “Vagabondo”, anche lui un sopravvissuto. Spesso la sera, quando sono in costume, vado a sedermi al caffè Florian, con i suoi tavolini minuscoli su cui c’è posto solo per due tazze di cioccolata o due coppe di champagne, durante il Carnevale luogo d’incontro delle maschere più eleganti e alla moda, molte di loro straniere, francesi, inglesi, tedesche.
Questa volta, però, Charlot ha un altro programma, e vuol partecipare a un ballo in maschera di alto livello. È un’esperienza cui ho finora resistito per l’elevato costo, che mi avrebbe costretta a restare fino a tardi anche se avessi desiderato andarmene prima. Inoltre, non credo sia ambiente da “Vagabondo”. Ma Charlot ha la meglio. E decide per una serata di minuetto in una sala tutta dorature e cristalli dell’hotel Danieli: dove, comprese nel biglietto, ci sono la cena, lezioni di ballo e musica da camera dal vivo. Attorno al grande tavolo dalla tovaglia candida, un centinaio di persone in costumi elaborati parla a voce bassa, mentre mangia e beve con gesti solenni. Tra una portata e l’altra ci insegnano qualche passo di minuetto e molti assumono pose eleganti, erette, probabilmente sconosciute nelle loro vite quotidiane. Decisamente non siamo nel XXI secolo! La mattina dopo, all’alba, con il bastone in mano e il costume impacchettato in valigia, mi avvio a piedi a prendere il vaporetto per poi raggiungere l’aeroporto. A bordo, mentre mi godo l’ultimo sprazzo di Venezia, scorgo sull’acqua i movimenti fluidi di un gondoliere, mentre si piega in avanti per spingere la sua gondola. Come per un riflesso condizionato, il mio corpo si inclina in avanti e già penso al mio prossimo Carnevale. Poi noto una giovane donna asiatica che mi fissa, spostando lo sguardo dai miei occhi al bastone, e ancora ai miei occhi. Come in un lampo di scoperta mi dice: «Lei è Charlot!». Anche se ormai sarei libera di parlare, mi basta sorridere.
(Traduzione di Elena Del Savio)