di Silvestro Serra | Fotografie di: Massimo Pacifico
Il fascino tutt’altro che discreto (e misterioso) dei tamburi della Bassa Aragona. Per 24 ore senza sosta risuoneranno sull’altopiano per celebrare la Settimana santa. Mentre a Saragozza, capitale della regione, le processioni di Pasqua coinvolgono strade, piazze e le cattedrali con i dipinti dall’emerito concittadino Goya
«In parecchi villaggi dell’Aragona esiste una consuetudine unica al mondo. Quella dei tamburi del Venerdì santo. Ma in nessun luogo con una forza così misteriosa, così irresistibile come a Calanda... Una cerimonia collettiva, impressionante, stranamente emozionante... ignoro la causa di questa emozione. Probabilmente è dovuta alle pulsioni di un ritmo segreto, che trasmette una specie di brivido fisico... io stesso mi sono servito di quei battiti profondi e indimenticabili in parecchi film e in particolare nell’età dell’oro, Simon nel deserto e Nazarin...». Chi scrive è Luis Buñuel, celeberrimo regista spagnolo, aragonese, calandino di nascita, nella sua autobiografia «dei miei sospiri estremi».
Che cosa avrà mai questa festa da attrarre il regista surrealista «ateo per grazia di Dio» a usare come colonna sonora bombos (le grancasse) e tamburi, per sottolineare il rimorso, la pulsione sessuale, ma anche il dubbio religioso e il fanatismo?
Che cosa la rende così diversa dalle altre mille cerimonie e processioni religiose che si celebrano nei giorni della Pasqua? Ce n’era abbastanza per scatenare la curiosità e provare a tornare nel piccolo borgo della Bassa Aragona, famoso per il suo olio d’oliva, nella Settimana santa e assistere oggi a questo originale rito della liturgia cattolica e della tradizione popolare in salsa aragonese ancora identico nelle forme e nella passione dei partecipanti (alla fine della lunga cerimonia, le pelli dei tamburi dei tamborilleros sono macchiate di sangue).
La scena della piazza di Calanda è la stessa vista cento anni fa da Buñuel bambino. Da una comoda altana assistiamo all’arrivo alla spicciolata degli abitanti coperti da una tunica violacea e un cappuccio dello stesso colore. Sono migliaia, uomini, donne, bambini. Si accalcano sotto la chiesa portando grancasse, tamburi rullanti. Nessuno li percuote ma guardano tutti impazienti il campanile con il grande orologio. Al primo tocco di campana del mezzogiorno del Venerdì santo e al segnale dato dal maestro delle cerimonie (l’ultimo il regista Fernando Trueba) si scatena l’inferno. La folla inizia a colpire con tutta la forza che ha gli strumenti seguendo cinque sei ritmi diversi, ma tutti incalzanti. Si formano gruppi e circoli che si sfidano in potenza e abilità. Dopo un paio d’ore di questo frastuono le processioni si disperdono per le strade e i vicoli del paese. L’impressione è talmente forte e i ritmi così incalzanti, penetranti, stordenti che persino un duro come l'attore Francisco Rabal confessò: «Inconsciamente, senza quasi rendermene conto, ho cominciato a piangere».
Una cerimonia quella di Calanda che risale alla fine del Cinquecento e alle prime cofradíe, confraternite sorte all’ombra dei conventi, per azioni benefiche, come la Misericordia di Firenze. Sono le confraternite che organizzano e regolano la Settimana santa aragonese. Non solo a Calanda ma in nove paesi della Bassa Aragona, a sud di Saragozza, la capitale della regione. Albalate, la Puebla de Híjar, Alcañiz, Alcorisa, Híjar... insieme hanno creato la Ruta del Tambor y el Bombo che dal 1980 è stata dichiarata manifestazione di interesse nazionale.
Si tratta di un itinerario che permette di assistere, passando di paese in paese, ai vari momenti della Settimana santa, dalla costruzione degli strumenti alle Viae crucis, fino alla rompida de la hora, che è l'inizio della rumorosa 24 ore e che si conclude il Sabato santo lasciando un senso di vuoto e di vertigine a chi da un giorno e una notte si sente martellare le orecchie. Se a Calanda la rompida scocca a mezzogiorno, nella vicina Puebla de Híjar l’ora X è la mezzanotte e nella piazzetta convergono tutti gli abitanti questa volta vestiti di nero. La ruta prosegue la mattina successiva ad Alcañiz, nelle strade e nella piazza di Spagna circondata di grandi logge. È un bel paese di origine araba posto sullo storico Camino de Santiago, sul fiume Guadalupe e protetto dal grande castello gotico. Nemmeno la pioggia ferma le lunghe file di tamburini di tutte le età qui drappeggiati di tuniche celesti.
C’è invece un bel sole dorato quando si celebra nel pomeriggio il processo a Cristo sotto lo sguardo indifferente di Ponzio Pilato alle falde del monte che sovrasta Alcoriza. Si rappresenta qui una realistica versione della Via crucis interpretata da attori professionisti in costume ma alla quale partecipa tutto il paese. Prima dell’appuntamento finale c’è ancora tempo per una sosta a Santiago de l’Ebro, uno dei quattro monasteri cistercensi dell’Aragona oggi trasformato in un tranquillo resort della catena dei Paradores, di proprietà della regione.
A mezzanotte meno cinque la piazzetta di HÍjar è zeppa di tamburi che aumentano ancora di più il volume e velocizzano il ritmo. Il sindaco si fa largo. Un gesto della mano e all’unisono il silenzio, assordante più dei tamburi. I tamborilleros depongono gli strumenti e fino alla prossima Settimana santa il vasto e spopolato altopiano dell’Aragona torna all’agricoltura.
Dove la festa continua è nella capitale, Saragozza dove si tengono la domenica di Pasqua le cerimonie dell’incontro della Madonna e Cristo risorto, portati in processione nella piazza di Spagna, dai membri delle 24 confraternite (oltre 15mila persone) coperti di capirotas e terzerol, cappelli e veli, degli stessi colori delle tuniche. Per tutta la settimana Saragozza è affollata di processioni, un entrare e uscire dalle chiese, con carri e gruppi di statue. E ognuno ha sede in una chiesa custodita da una cofradía. La più antica, quella del Sangue di Cristo, risale al medioevo.
Gentili e affabili, ma considerati molto testardi (furono gli unici a resistere a Napoleone nel 1808 e a interrompere la serie di battaglie vinte dell’imperatore) i saragozzani (molto meno di un milione ma più della metà di tutti gli abitanti della regione) sono gli eredi di innumerevoli mescolamenti di tutte le invasioni subite dalla regione, a cominciare dagli Arabi (esiste il bellissimo palazzo arabo della Aljafería). Abitano volentieri la quarta città di Spagna per grandezza e con un bassissimo tasso di criminalità. Attraversata dal fiume Ebro e fondata proprio per questo dai Romani è un inevitabile crocevia di tutte le strade, centro di un cerchio che unisce tutte le città spagnole, da Madrid a Barcellona a Bilbao che si raggiungono in un’ora con i treni Ave.
Ora anche grazie ai voli low cost è diventata una delle tappe preferite dagli studenti del progetto Erasmus che rinnovano la lunga e nobile tradizione universitaria di Saragozza che risale al Quattrocento. Ma non si può girare per la città di impianto romano, con il cardo (calle Jaime primero) e un gran teatro all’aperto per seimila spettatori scavato nel 1973 ricoperto di alabastro, senza attraversare la magnifica piazza di Spagna.
Qui si incontrano l’antico (due cattedrali, quella del SS. Salvatore e Nostra Signora del Pilar, amata dalle spagnole per le grazie ricevute) e il contemporaneo con installazioni all’aperto, giochi d’acqua, fenditure di rocce e cristalli. Anche il cinema spagnolo è nato qui. Edoardo Guimeno filmava le processioni pasquali anche prima dei fratelli Lumière. Ma il saragozzano più noto è Francisco Goya che nel Pilar ha dipinto dieci quadri prima di fuggire a Madrid alla corte del re. Di Goya si conserva la casa natale in calle S. Miguel e il museo Camón Aznar dove si trovano 244 sue incisioni, la più grande collezione al mondo. Goya fu un vero reporter che raccontò in modo critico la società, la guerra e la corrida. Tra una processione e un monumento, bisogna trovare il tempo per la certosa di Aula Dei dove si trovano grandi dipinti di Goya quasi mai visti.
Ma non si può lasciare Saragozza senza un laicissimo giro di tapas e di assaggi della cucina e dei vini di Aragona nella zona gotica a cominciare da calle di S. Jorge (la strada dello struscio) e da plaza Santiago da dove parte il vicolo dei bar, il centro della movida, quel calle de los Estebanes, per tutti «el tubo», affollato fino a notte nonostante la grave crisi, solo per un momento alleviata dai 6 milioni di visitatori dell’Expo 2008. Oggi la zona espositiva, subito al di là dell’Ebro, è in gran parte vuota.
È allora meglio dimenticare la recessione con i migliori spuntini della città. Huevos rotos, baccalà e frittelle di formaggio; pollito de corral con alcachofas (carciofi) salteadas. O per finire in bellezza berberechos, telline in salsa di aceto e alici in salamoia con vermut e soda.
I tamburi finalmente sono lontani.