Il viaggiatore. La vera isola del tesoro si trova alle Samoa

A Upolu, nell’arcipelago del Sud Pacifico, nella casa (ora museo) dove lo scrittore Robert Louis Stevenson trascorse gli ultimi anni della sua vita

Upolu, un’isola dell’arcipelago delle Samoa, nel 1889 accolse uno scrittore britannico molto provato dal lungo viaggio nell’oceano. All’inizio, Robert Louis Stevenson non pensava di stabilirsi su quelle coste lussureggianti. Poi, lentamente, aveva deciso di farsi costruire la casa che adesso è diventata il suo museo. Per farlo, aveva acquistato circa centocinquanta ettari alle pendici di un’altura, il monte Vaea, vicino al villaggio di Vailima, che significa “cinque fiumi”, quanti erano i corsi d’acqua che alimentavano i prati dello scrittore. Gli indigeni chiamavano Tusitala, “narratore di storie”, quell’uomo alto, sottile e sempre cortesissimo, che lavorava alacremente nella grande veranda. I visitatori possono ancora vedere il modesto arredamento dello studio dell’autore dell’Isola del tesoro, che scriveva sotto le amate stampe di Piranesi. Nelle librerie dipinte di bianco, i volumi erano protetti dall’intensa umidità da una mano di vernice.

Nella nuova casa, Stevenson visse un periodo entusiasmante. «Non mi immaginavo che esistessero luoghi del genere. La salute va a gonfie vele. Ho camminato carponi nell’acqua per quattro ore, cercando conchiglie. Sono stato a cavallo per cinque ore. Che clima!» E concludeva trionfale: «...i profili di nuove isole nell’alba grigia, nuovi porti sovrastati dalla foresta, nuove grida di allarme per gli squali e per la risacca: il racconto della mia vita è meglio di un poema!».

In certi giorni la realtà era meno entusiasmante, a cominciare dalla lotta senza fine contro la giungla che cercava di invadere i prati. Ma nell’euforia della novità Stevenson sfidava la sua debolezza accentuata dalla tubercolosi, per dedicarsi al giardinaggio. «Nei pochi mesi che sono stato qui mi sono divertito più che in tutta la mia vita.» Un divertimento reso possibile dalla presenza, al suo fianco, della moglie Fanny, che cercava di allontanare ogni difficoltà da quel grande malato. I suoi abiti, la macchina da cucire e il cestino da lavoro sono ancora visibili nella camera da letto, tra i mobili ottocenteschi della casa-museo. Presto però le ristrettezze economiche l’avevano obbligato a rimettersi a tavolino e a scrivere per mantenere la grande famiglia che lo aveva seguito in quell’avventura.

Il suo amore per la mancanza di comfort e la durezza della vita samoana lasciava tutti ammirati e stupiti. Stevenson però non rinunciava a certi lussi. Aveva speso un somma notevole per farsi costruire un camino, del tutto inutile all’equatore. D’altronde per lui una casa senza focolare non era una casa. In omaggio alla patria lontana, nei giorni di festa i domestici venivano vestiti con un perizoma scozzese del clan Royal Stewart.
La giornata dello scrittore iniziava presto, alle cinque del mattino, quando un gigantesco isolano, soprannominato “Il bambino”, gli portava un’arancia. Il momento della colazione con una tazza di tè e uova fritte arrivava solo un’ora dopo.

Alle dieci e trenta il suono di una conchiglia usata come una tromba avvisava dell’imminenza del pranzo, consumato spesso in camera della maestosa madre. Una lunga sosta, fino alle quattordici, veniva spesso dedicata alla musica con i figliastri. Poi Stevenson scriveva fino alle sedici, quando si rinfrescava con un bagno e con due «deliziosi manghi».
Se, come accadeva spesso, si sentiva debole, lavorava allungato su un letto di stuoie o dettava alla figliastra. Alle diciassette era il momento della cena in veranda, coronata dalle storie narrate dallo scrittore e, a volte, da una mano di carte; oppure si leggevano le lettere degli amici, da Gustave Flaubert a Henry James. Alle venti, risaliva in camera, al piano di sopra, con una pinta di birra e una galletta che gli facevano da clessidra: «Quando le ho finite, vado a dormire».

Stevenson morì nel 1894. Sulla sua tomba è scritto il suo ultimo messaggio: «Egli riposa qui dove desiderava riposare; dal mare è tornato alla sua casa il marinaio, dalle colline è tornato il cacciatore».

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