di Isabella Brega | Fotografie di: Grégory Rohart
A poco più di vent’anni dalla fine di una guerra sanguinosa il Paese, con un’economia in grande espansione e una situazione politica stabile, offre una capitale dinamica, anche se ricca di contraddizioni, e l’inesauribile magia di Angkor, Patrimonio Unesco dell’umanità.
La bellezza può convivere con l’orrore? Bisogna affondarvi le mani per avere il coraggio di voltarsi indietro e scendere a patti con la memoria del passato? In Cambogia sì, soprattutto quando per vent’anni si è fatto di tutto per negarlo. Non è possibile parlare della magnificenza di Angkor, lo straordinario sito archeologico a due passi da Siem Reap, senza pensare alle sofferenze di un popolo gentile che ha conosciuto il genocidio.
E per mano dei propri uomini. Non è possibile attraversare Phnom Penh, la capitale opaca e dinamica di un Paese segnato dallo scorrere lento del fangoso Mekong, senza ricordare le macerie lasciate da una guerra fratricida. Ci sono ferite che fanno fatica a cicatrizzarsi, eppure la Cambogia non si è lasciata rubare la speranza. Ha ritrovato se stessa senza tradire la propria storia e le proprie tradizioni. Ma oggi guarda oltre, punta sull’industria, sul turismo, sfoggia gli arabeschi di pietra dei suoi tempi antichi, i sorrisi enigmatici delle sue straordinarie opere d’arte, la grazia leggera del proprio artigianato. I tanti giovani armati di motorini e cellulari che corrono in città che non lasciano il segno – case basse e palazzi anonimi, grappoli di fili elettrici, aria spessa e ferma – non hanno memoria di queste vecchie, tragiche storie. Gli anziani non amano parlarne, i rancori giacciono sepolti sotto il nuovo benessere, la riconciliazione e il nazionalismo crescono sotto la bandiera della globalizzazione e del consumismo.
A marzo e a giugno 1992 a firma del vicedirettore Raffaella Ceccopieri uscì su Vie del Mondo, la rivista del Tci realizzata in collaborazione con National Geographic Traveler, uno fra i primi servizi (scaricabile in formato pdf negli approfondimenti qui a destra) realizzati all’indomani della firma del trattato di Parigi che il 23 ottobre 1991 aveva messo fine a vent’anni di guerra civile. E soprattutto ai quattro, terribili anni del regime di Pol Pot (1975-1979).
Due cifre indicative di quello che il film Urla del silenzio, ispirato alla storia del corrispondente del New York Times, Sydney Schanberg, salvato dalla guida cambogiana Dith Pran, ha lasciato nella nostra memoria: su una popolazione di sette milioni di persone erano stati eliminati quasi due milioni fra uomini, donne e bambini. Nel liceo Tuol Sleng di Phnom Penh, trasformato dai khmer rossi in sede di polizia, su 20mila prigionieri ne erano sopravvissuti solo sette. Decapitata la classe dirigente, eliminati gli insegnanti (alla fine della guerra non c’era più nessun cambogiano in grado di leggere il sanscrito o il pali, le due lingue scritte sui monumenti storici), distrutti libri ed edifici, spazzato via il retaggio coloniale, il Paese non aveva più un passato e si era mangiato il futuro.
Col titolo Phnom Penh: dove torna il sorriso e La capitale di un regno perduto, accompagnati dalle foto di Gianfranco Lanzetti, i due servizi giornalistici ricordavano l’opera di Federico Major, direttore generale Unesco, che il 29 novembre 1991 aveva inserito Angkor, la mitica capitale dei re khmer dal IX al XIII secolo, nella lista del patrimonio mondiale da salvare e avviato i lavori del faraonico progetto di recupero dell’intera area archeologica. Si affermava che «L’impegno, anche economico, è inimmaginabile considerando l’estensione dell’area, il numero dei monumenti e i problemi che si presentano. Vent’anni di completo abbandono e di guerra, che non si è fermata di fronte all’arte e alla storia, hanno aggravato una situazione già problematica. Le infiltrazioni d’acqua e le muffe attaccano la pietra e concorrono allo sgretolamento dell’arenaria. Dico “concorrono” perché altri due temibili nemici lavorano per la rovina: la vegetazione e i ladri. La prima getta i suoi semi nelle fessure e, crescendo, strangola nelle radici degli alberi volte, architravi e statue fino a determinarne il crollo». Raffaella così concludeva: «Il lavoro che l’Unesco deve affrontare è immane né, credo, questa nostra generazione ne vedrà la fine». Quelle pubblicate dal Touring erano fra le prime immagini di un Paese che per due decenni era stato pressoché dimenticato.
Una specie di damnatio memoriae simile a quella che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, aveva fatto di Angkor una città perduta. Sconosciuta al pari del nome di Jayavarman VII (1181-1201), il più importante re khmer della storia cambogiana, cui si deve il periodo di massimo splendore di tutto il Sudest asiatico, l’era di Angkor. Dopo di lui, la decadenza. Jayavarmadiparameçvara è l’ultimo sovrano-dio menzionato nelle iscrizioni dei templi. Segue un’agonia architettonica dolce e misteriosa, mentre le capitali khmer, come nella favola della Bella addormentata nel bosco, venivano lentamente, inesorabilmente divorate da una natura bulimica ma pur sempre pietosa, e meno distruttiva dell’uomo. Poi il risveglio e l’esplosione dell’Angkormania. Nel 1863 la Cambogia diventa protettorato francese e a Parigi esce Le tour du Monde del Voyage dans les royaumes de Siam, de Cambodge, de Laos et autres parties centrales de l’Indo-Chine del botanico Henri Mouhot, che narra la scoperta della città perduta. Nel 1887, in seguito alle prime spedizioni in Indocina, nella quale la Cambogia era confluita come protettorato francese, in Francia suscitano grande clamore gli acquerelli di Lucien Fourneau, mentre Louis Delaporte (1842-1925), disegnatore della seconda spedizione ad Angkor, in cambio di paccottiglia porta via dal Paese 70 reperti, che vengono presentati nel 1878 all’Esposizione universale, e costituisce il primo nucleo delle collezioni di arte khmer del museo Guimet. Negli stessi anni Rodin tallona le danzatrici del corpo di ballo reale di Phnom Penh fino a Marsiglia per immortalarne l’esotica bellezza.
Nel 1901 è la volta di Pierre Loti, che rimane stregato da queste città erette da re di diverse dinastie circondate da un sistema idraulico straordinario, basato una fitta rete di canali alimentati da bacini artificiali, ora in gran parte interrati, i baray, che consentivano durante la stagione secca di allagare le risaie, assicurando due raccolti all’anno. Un delirio di pietra su un muro di vegetazione: «immagini di dei... alle quali, a distanza di secoli, né il lento lavorio della foresta né le pesanti piogge che tutto disgregano hanno potuto sottrarre l’espressione, l’ironica bonomia ancora più inquietante del rizzarsi adirato dei mostri cinesi» (Pierre Loti, Un pellegrino ad Angkor).
Qualche anno dopo invece è la volta di Paul Claudel, che definisce questo «uno dei luoghi più maledetti e malefici che io conosca» e impietosamente paragona le cinque torri di Angkor Wat ad ananas. Nel 1923 André Malraux arriva a sottrarre alcune sculture dal Banteay Srei per rivenderle. Arrestato, si salva dalla galera grazie a un appello degli scrittori francesi, ma il romanzo autobiografico La Via dei Re che ne racconta la brutta avventura gli assicura il successo. Di ladri Angkor ne vedrà ancora molti. Dimenticata, nascosta, umiliata, ignorata, sarà depredata da avventurieri, poveracci e uomini senza scrupoli, che alimenteranno un fiorente contrabbando di antichità. L’indipendenza nel 1954 non migliora le cose, i bombardamenti degli americani (1970-1973), i khmer rossi di Pol Pot (1975-1979) e dieci anni di occupazione vietnamita (1979-1989), vedono le incursioni di bande armate e razziatori, divisi fra orgoglio e furia iconoclasta. Il Paese perde così il 60% del proprio patrimonio artistico. Oggi oltre 7mila pezzi sono stati rimpiazzati da copie. Gli originali sono al sicuro nei depositi della Conservation d’Angkor, anche se sono state depredate il 90% delle teste (le più commerciabili). Un esercito di decapitati troneggia così fra templi ed edifici, triste testimonianza dell’avidità e della stupidità umana, mentre un esercito di turisti, tenuti d’occhio da una miriade di volti dalle palpebre pesanti e il sorriso che increspa la pietra, arranca sulle gradinate strette e ripide, rimpiangendo una più verde età e soffrendo umidità e confusione. Sono infatti più di tre milioni i turisti che ogni anno arrivano in Cambogia. In certi momenti la spianata davanti ad Angkor Wat è come via Montenapoleone, a Milano, a Natale, occhi a mandorla compresi. Angkor ha bisogno di comprensione, compassione, complicità. Fra coreani e cinesi, lame di sole e pozze d’ombra, radici di ceiba che si incuneano fra le pietre fino a svellere intere pareti o ricoprono come una piovra delicati bassorilievi, soffocandoli per troppo amore. Fra leggiadre danzatrici che si arrampicano su pilastri, hai un unico, inconfessato desiderio: trovare un angolo tranquillo e restare solo davanti all’eternità. Fermarti, capire. Appoggiare le mani sulle pietre per ascoltarle, e sentirti vivo come non sei mai stato. Al tempo stesso vorresti testimoniare il tuo passaggio in questo luogo unico che, come le ceiba, si è fatto strada dentro di te, legandoti con le sue radici.
Essere solo al cospetto di questa magnifica ossessione, di questa natura potente, esuberante, malata di protagonismo, mai doma; al cospetto di «uno di quei pochi, straordinari luoghi dinanzi ai quali ci si sente orgogliosi d’essere membri della razza umana», come scrisse nel 1992 Tiziano Terzani. Sopravvissuta ai conflitti, la sua Angkor non esiste più. E più che la vegetazione deve contrastare l’invadenza di un turismo cieco, cui tutto è concesso, mentre l’unica guerra che i visitatori hanno in testa è quella di Tomb Raider. Parte del film tratto dal famoso videogioco è stata infatti girata qui, facendo di Angelina Jolie-Lara Croft come dell’albero che imprigiona Ta Phrom due star internazionali, e regalando una nuova mamma a un orfano cambogiano, ribattezzato Maddox e inserito nella tribù multietnica dei Brangelina.Quante cose si possono trasportare su uno scooter? In Cambogia un esercito su due ruote sposta il mondo. Quasi sempre in compagnia: una moglie, sei bimbi, un frigorifero, due maiali... A Phnom Penh il presente non è solo una rivincita contro la storia, è una corsa. La foresta di pietra di Angkor, immobile, fuori dal tempo, è una faccia, la capitale è tutt’altra faccenda. I cambogiani sono impegnati a produrre, vendere, comprare. Questo è un Paese giovane, circa metà della popolazione è nata dopo il 1980. Nel 2012 il prodotto interno lordo è cresciuto del 7%, l’inflazione si è attestata al 3%, il reddito pro capite ha superato i mille dollari, mentre 20 milioni di carte telefoniche collegano 15 milioni di abitanti.
A Phnom Penh, 2.2 milioni di abitanti, costruita alla confluenza di tre fiumi, non affannatevi a cercare l’allure coloniale francese. Molte delle sue delicate case in legno si sono consumate, come è sparito il francese dalle bocche dei suoi abitanti, anche se baguette, zuppa di cipolle e pasticcerie non sono passate di moda. Qualche riflesso rimane nei sontuosi hotel come lo storico Raffles, negli ampi boulevard lungo il corso del Tonle Sap. Ma anche negli edifici progettati dagli allievi di Le Corbusier, Lu Ban Hap, Mam Sophana, e soprattutto Vann Molyvann.
Gli eleganti riccioli e i demoni del Palazzo Reale, eretto nel 1860, con la sua spettacolare pagoda d’argento, esprimono invece tutta la grazia dell’architettura khmer, al pari dell’elegante Museo nazionale, progettato da George Groslier in stile khmer nel 1920, con una straordinaria collezione di statuaria dal V al XIII secolo. Eppure questa capitale fa poche concessioni ai turisti. Non ha tempo per loro, ma solo per i loro consumi, pienamente soddisfatti negli alberghi lussuosi, nei ristoranti ricercati e nel mercato centrale, dal 1935 art déco e artigianato. Gentili, servizievoli, sorridenti, gli abitanti di un Paese nel cui vocabolario non esistono gli insulti si sono rimessi al polso quegli orologi che Pol Pot aveva abolito. E il tempo, che il dittatore aveva condannato a un eterno presente, ha riconquistato la dimensione del futuro.