di Simonetta Agnello Hornby
La cittadella, i musei aperti, le piccole chiese del Castello: nell’ultimo viaggio ho finalmente scoperto il capoluogo sardo.
Conosco Cagliari da vent’anni: i miei soggiorni sono stati brevi e piacevoli. L’ho girata a piedi, andando a visitare la Cattedrale e le chiese principali, con un rapido passaggio al Museo archeologico. La consideravo una gradevole città mediterranea, molto accogliente, e null’altro. Ma certe volte bisogna tornare in un luogo per scoprire la sua anima.
E a Cagliari sono tornata nel maggio scorso, su invito di Andrea Camilleri: l’università gli avrebbe conferito una laurea honoris causa in Lingue e Letterature moderne europee e americane.
Dopo la cerimonia sono salita alla cittadella che occupa la rocca: un ammasso di costruzioni, alcune antichissime, abbarbicate alla roccia, a volte persino scavate nella roccia stessa. La contentezza per quella mattinata all’università mi risuonava ancora dentro: ogni volta che le scale giravano attorno a una chiesa e mi trovavo faccia a faccia con la cupola – e, sopra, con il cielo aperto – mi sembrava di salire sulle nuvole. La scala continuava a salire e costeggiava le fondamenta di altri edifici aggrappati, affastellati. La cinta muraria di Cagliari mi ricordava quella di Granada, dove giardini pensili e belvedere alleggeriscono la severità dei contrafforti.
A differenza di noi siciliani, il popolo sardo è guerriero: Cagliari si è sempre difesa, e con successo, dagli invasori, come dimostra la facciata settecentesca di fronte al teatro, ora cinema all’aperto, che mostra orgogliosa le palle dei cannoni napoleonici incastrate nella pietra. E, unici tra tutti gli italiani, i sardi hanno sviluppato una straordinaria e sofisticata forma di arte autoctona in cui la rappresentazione della figura muliebre – inizialmente in pietra e poi in bronzo – ha seguito un solo filo conduttore: una maternità che dà vita e protezione, e ispira reverenza. Sono le più potenti riproduzioni del corpo femminile che abbia mai visto.
Le figure maschili non sono da meno: guerrieri, spada in mano e mantello sulle spalle, che sembrano sacerdoti; altri, onniscienti e onnivedenti, con due occhi per sopracciglio e altri due su antenne che crescono loro sulla testa, come fossero lumache. La civiltà nuragica spazia in un mondo di fantasia sempre antropocentrico, che vive e si è mantenuto nei sepolcri: ho visto tombe formate da camere separate, alle quali si accede attraverso tunnel; e altre gigantesche, a forma di T, che non sono da meno delle piramidi egizie, pur non essendo altrettanto appariscenti.
Era la giornata in cui chiese e musei erano aperti gratuitamente; gli studenti delle scuole cittadine facevano da guida. Tanti, belli, fieri, avevano studiato un reperto ciascuno, e si avvicinavano ai turisti sorridendo: «Vuole una spiegazione?». Ascoltai spiegazioni imparate da paginette strette nervosamente tra le mani, a cui ogni tanto le mie guide gettavano un occhio. Avrei voluto essere una di loro, giovane e orgogliosa della mia città e delle opere d’arte della Sardegna, con la vita davanti e tante speranze intatte. Ero l’unica visitatrice in una grande sala, mi bastava spostare lo sguardo per incontrarne uno speranzoso: «Vuole una spiegazione?». Avrei preferito continuare il mio giro da sola, ma mi ero accorta che, da un angolo, l’insegnante controllava i ragazzi. E cedetti più volte: «Sì, grazie!».
Scendevo per le vie ripide attraverso il quartiere Castello, da cui si gode la vista sulla città e sul mare. Le chiese sono piccole, dato il poco spazio: si adattano al terreno e si rifanno in altezza. In una arrivai a contare cinque piani di cripte, e mi parve una metafora della religiosità dei sardi: solida, seria, nascosta. Vicino alle muraglie, mi imbattei in una sfilza di chiese aperte per l’occasione – opere barocche di artisti sardi, su impronta catalana. Gli altari, enormi, occupavano l’abside intera. Alcuni erano lignei, dipinti con colori scuri e profondi come la campagna sarda, altri di marmo intarsiato, altri ancora di legno dorato, di un barocco leggero. E poi ce n’erano alcuni decisamente inconsueti. Sembravano di ispirazione nuragica, perché sfoggiavano una molteplicità di scaffali, come di occhi tra il marmo dell’altare e il tabernacolo che troneggiava in alto con colonnine al lato. Anche quelli riempivano l’abside. Mozzafiato.
Fuori le mura della cittadella, l’ottocentesco largo Carlo Felice – un grande squarcio nel reticolo di stradine che conducono al porto – ricorda le Ramblas di Barcellona. Attorno al viale, le scale strette e ripide che salgono sulla rocca assumono, negli incroci con altre scale e viuzze o all’altezza delle minuscole piazze, le forme più bizzarre: due scalini vicini e ripidi, poi uno largo seguito da altri due quasi affastellati, altri che costeggiano la curva di un’abside, aprendosi a ventaglio appena possibile... Da ogni angolo si vedono fazzoletti di mare e cielo. Sopra i tetti il cielo liquido, alto e luminosissimo. Cagliari è una città da scoprire e assaporare.