di Stefano Brambilla | Fotografie di: Luciano Gaudenzio
A cinquant’anni dal disastro del Vajont, siamo ritornati sulle montagne pordenonesi per capire quale sviluppo ha avuto un’area rimasta ai margini dei grandi flussi turistici. E abbiamo scoperto una realtà controcorrente, che punta tutto su piccole offerte di qualità e su spettacolari paesaggi ancora selvaggi. A sinistra, la presentazione di Stefano Brambilla, autore del reportage.
Quando sei lì, sulla diga, a guardare da una parte e dall’altra, dove c’era l’acqua e dove l’acqua se n’è andata, ecco, pensi che davvero ci vorrebbero le agane, le leggendarie fate dei torrenti che ricorrono in tante storie delle montagne friulane. Solo loro potrebbero riportare indietro il tempo e far sì che tutto sia stato soltanto un brutto incubo, di quelli che vorresti aprire gli occhi e renderti conto che non è stato vero niente. E invece no, invece hai negli occhi e nelle orecchie quello che hai visto e sentito nel museo di Erto, le lettere per la società costruttrice di chi aveva capito benissimo che c’era qualcosa che non andava, i nomi delle persone mai ritrovate, i racconti dei sopravvissuti ormai stanchi di ricordare quella notte in cui c’erano le stelle e pioveva. E hai lì davanti la colossale montagna di terra caduta dal Toc, ormai ricoperta di alberi, che per portarla via – hanno calcolato – ci vorrebbero cento camion al giorno per cent’anni. E vedi e capisci e metti i pezzi insieme e riesci all’improvviso a immaginarti che cosa successe, quel 9 ottobre 1963, quando il Toc venne giù nel lago, l’acqua rimbalzò e divorò Erto e Casso, i paesi friulani vicini alle rive, e poi scavalcò la diga per precipitare a valle, nel Bellunese, devastando Longarone. No, dovevano essere occupate in altre faccende, quella notte, le agane. Anche quelle più cattive non avrebbero potuto concepire qualcosa di così tremendo. L’onda del Vajont provocò quasi duemila morti, una delle più grandi tragedie del dopoguerra italiano.
Sono passati cinquant’anni e la diga è sempre lì a ricordare quella notte, enorme e quasi tronfia, involontario monumento all’arroganza o all’insipienza dell’uomo. Ed è inevitabile, necessario partire da qui, per raccontare che cos’è quest’angolo di Friuli mappato per troppo tempo soltanto come luogo del dolore. «Ma non possiamo fermarci alla diga, vieni, ti faccio vedere come stanno cambiando le cose». Luciano Pezzin, sindaco di Erto e Casso, ci porta fino a Casso, un grumo di case alte e strette appollaiate di fronte al Toc, alcune ancora segnate dall’onda. All’ingresso del paese, isolata, la vecchia scuola elementare che l’acqua non è riuscita ad abbattere, i segni della furia sulla facciata. «L’abbiamo restaurata, lasciando a ricordo l’esterno, e affidata ai ragazzi del progetto Dolomiti contemporanee: decine di artisti sono chiamati a vivere a Casso e a realizzare qui le loro opere, che poi vengono esposte nella scuola». Ci aggiriamo sbalorditi tra installazioni più o meno comprensibili e gruppi di giovani che probabilmente non avrebbero mai messo piede da queste parti, se non fosse stato per il richiamo dell’arte. Si respira aria nuova. Fuori dalle finestre, il Toc fa un po’ meno paura.
Ma l’aria fresca in realtà non manca, da queste parti. Perché quel che non tutti sanno è talmente lampante, quando sei lì. La diga, Casso, Erto – che sembra un cantiere aperto, tante sono le case in ristrutturazione: un altro piccolo segno di cambiamento? – sono in mezzo alle Dolomiti. Mica montagne qualunque. Basta qualche chilometro e ti ritrovi in mezzo a torri di calcare, crode verticali, ghiaioni che si arrossano al tramonto. «E anche noi abbiamo ricevuto il riconoscimento Unesco, insieme ai gruppi dolomitici più noti» ricorda Pezzin, che tra l’altro è presidente del parco regionale delle Dolomiti Friulane. «Abbiamo un parco e l’Unesco: quali basi migliori per il turismo?». Eppure di turismo se ne vede ben poco, rispetto alle cifre di certe Dolomiti più a ovest: qui, ci accorgiamo, la parola d’ordine è discrezione, non massa. Altrove, una valle come la val Cimoliana, che si inoltra da Cimolais verso nord, sarebbe stata invasa da impianti, ristoranti, bus turistici; invece la percorre una stradina che si aggira bucolica tra prati e ruscelli, d’inverno è sommersa dalla neve, e che in mezzo a uno spettacolo di vette arriva fino al rifugio Pordenone, unica struttura ricettiva nel raggio di chilometri. «Noi siamo la casetta del cane rispetto alle altre Dolomiti» conferma Giuseppe Damiani, presidente del consorzio Piancavallo Dolomiti Friulane. «Pensa: non abbiamo alberghi oltre le tre stelle. Eppure non ne vogliamo altri! Cerchiamo turisti di un certo tipo, che amino un certo tipo di montagna. E non ne desideriamo di più, vorremmo soltanto più costanza nella loro presenza, provando ad accompagnarli per mano, con le nostre guide e i nostri piccoli musei, attraverso il racconto della nostra storia». Ancora basiti da un discorso controcorrente, talmente raro di questi tempi, saliamo dal Pordenone fino al belvedere sul campanile di val Montanaia, celebre pinnacolo di roccia che sembra sfidare l’alpinista, «il monte più illogico» come lo definì qualcuno, o ancora meglio «la pietrificazione dell’urlo di un dannato», secondo le parole di quel Cozzi che per primo tentò di scalarlo e fu battuto di un soffio da una coppia di austriaci. Silenzio tra le vette, vento tra le fronde dei faggi.