di Tino Mantarro | Fotografie di: Alessandro Grassani
Camminare per la capitale portoghese riserva sorprese a ogni passo, basta stare attenti agli arabeschi disegnati sul selciato e non farsi distrarre troppo dalla bellezza degli azulejos che adornano i palazzi. Viaggio in una metropoli luminosa alla ricerca del possibile segreto della sua luce. A sinistra, la presentazione di Tino Mantarro, autore del reportage.
Accovacciato come uno scriba, Jorge Duarte picchietta con il martelletto cubetti di basalto nero. Li tasta, li soppesa, li rigira nelle mani. Tac. Colpo deciso e una tessera affonda nella sabbia, come se stesse compilando un gigantesco cruciverba. Verticale, orizzontale, bianco, nero: Jorge realizza un mosaico calpestabile in calçada do Combro, quartiere Chiado, centro di Lisbona.
In una città di nuvole e cielo è strano sorprendersi a guardare per terra. Eppure quando si cammina per la capitale portoghese accade che si finisca per stare ben attenti a dove si mettono i piedi. Un po’ perché è tutto un saliscendi sconnesso e la storta è un’eventualità possibile, anzi probabile. Un po’ perché al suolo Lisbona dispiega un catalogo di opere d’arte inaspettate. Fiori, caravelle, sfere armillari, draghi, punti, virgole, date, numeri, semplici segni e complicati arzigogoli che «ricoprono il corpo della città di tatuaggi fatti di basalto» raccontava lo scrittore José Cardoso Pires. I locali la chiamano calçada portuguesa, equivalente lusitano del selciato di memoria romana. È opera di maestri senza nome, i calceteiros, che accovacciati martellano senza posa cubetti bianchi (di pietra calcarea) e neri (basalto delle Azzorre). Sembrano amanuensi intenti a riscrivere il volto della città, quasi che stessero dando una sistemata al trucco prima dell’ennesima sfilata. Perché Lisbona è un po’ un palco all’aperto: luogo da guardare stando seduti in prima fila in uno dei miradouro, le terrazze panoramiche. Dall’alto del miradouro da Graça o dall’Adamastor adagiato sul Tago, dal trafficato miradouro de Santa Luzia o da quello sconosciuto di Santo Estêvão, nel cuore di Alfama, si capisce perché si dica che «Lisbona è una città fatta della materia di cui sono fatti i sospiri». Seduti all’immancabile bar, sorseggiando una imperial (birra alla spina), pasteggiando con una turrada (pane tostato e spalmato di margarina), cercando di capire quel che si dicono i portoghesi nella loro lingua neolatina che all’orecchio suona russo, si finisce per sospirare e dirsi «quanto è bella Lisbona»
Bella di una bellezza strana: né sfacciata, né immediatamente percepibile. Adulta, compassata, difficile. «Ci sono studiosi di paesaggio che per sentirsi in pace con la propria coscienza culturale visitano tutti i monumenti come se percorressero le stazioni di una Via Crucis» scrive sempre Cardoso Pires. Lisbona non fa per loro. Per Saramago «è una città tranquilla su un largo fiume dalla fama leggendaria». Una città non imbottita di cose da vedere. Una città la cui bellezza è da cercare camminando, assaporare fermandosi. Una bellezza che sta nei particolari. L’aria che odora di sardine e carne grigliate sul carbone, per strada. Le grandi navi che risalgono lente il Tago. La signora corpulenta che la domenica vende spezie africane in praça do Rossio. L’anziano affacciato alla finestra, che fuma piano, assaporando più l’aria che la sigaretta. Una bellezza che sta nella luce che ricopre tutto. In alcuni giorni d’estate, sosteneva Pereira, «con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, di un nitore che quasi feriva gli occhi».
Sulla luce di Lisbona molto si è scritto e molto si è detto. Il regista svizzero Alain Tanner le ha dedicato Dans la Ville blanche, la città bianca. Fernando Pessoa l’ha descritta come una città chiara con una consuetudine solare. Trovare la spiegazione per questa luce è un esercizio con cui ogni lisboeta si diletta, quasi fossero tutti scienziati in materia. C’è chi dice che sia geografica: la vicinanza con l’Atlantico renderebbe l’aria limpida, spazzata dal puntuale vento del pomeriggio. Chi che sia merito del Tago: davanti al Terreiro do Paço disegna una grande gobba e da fiume diventa quasi mare, facendo da immenso specchio, moltiplicando a dismisura la luce nelle sue acque calme. C’è poi chi, sicuro come del nome che porta, spiega che «no, la luce a Lisbona è figlia delle sue strade e dei suoi palazzi». «La città è pavimentata di pietra chiara che riluce come la mia auto quando la lavo» diceva l’attore Augusto Machedo. Ecco allora che il vero segreto della luce dipenderebbe dalle tessere bianche e nere su cui si riflette il sole che poi rimbalza sulle ceramiche degli azulejos azzurri, bianchi e di tutti i colori che rivestono le facciate. Riverberandosi all’infinito, così da inondare la città di quella luce bianca, densa e forte che la rende unica.
Ma possibile che tutto sia dovuto a delle mattonelle e a delle pietre posate per terra? Come se bastasse una mano di trucco a donare bellezza a un luogo? «Gli azulejos trasformano lo spazio, non sono semplice tappezzeria. Quando in Portogallo abbiamo iniziato a usarli per decorare le chiese, avevano il compito di illuminare gli interni» spiega Maria Antónia Pinto de Matos, direttrice del Museu nacional do azulejo. «Poi abbiamo perfezionato la tecnica e abbiamo iniziato a usarli in questa maniera così peculiare che ci distingue, ma non abbiamo inventato nulla. L’origine è araba e a noi sono arrivati attraverso i fiamminghi» racconta smontando con semplicità anni di fantasticherie senza fondamento. Come non è vero che Lisbona sia stata sempre coperta di azulejos. «Dopo il terremoto del 1755 ci si trovò a dover ricostruire la città, il marquês de Pombal e i suoi ingegneri pensarono a un modo che in prospettiva rendesse più difficile il propagarsi delle fiamme e pensarono che la soluzione potesse essere rivestire i palazzi di azulejos» racconta.
Ma sarà solo nel XIX secolo, quando in città apriranno alcune fabbriche tuttora esistenti (Sant’Anna, in rua do Alecrim, o Viuva Lamego, a Intendente), che le case inizieranno a essere tappezzate di azulejos. I prezzi erano più accessibili e una facciata rivestita non era più lusso da nobili. Una pratica durata decenni, che si è persa solo di recente, quando anche qui vetro e gigantismo architettonico hanno preso piede. Ma se gli azulejos si associano subito all’idea di Portogallo, non altrettanto si fa con la calçada portuguesa, che pure è un simbolo del Paese. Al punto che, in Brasile come a Macao, la pavimentazione è il lascito concreto dell’impero. «La calçada fu introdotta a Lisbona e poi in tutti i possedimenti nel XV secolo da don João II» spiega Fernando Fernandes, del Comune.
«Il re voleva che le strade fossero lastricate per togliere fango e polvere, indegni di una città che si apprestava a dominare un impero. Siccome non c’erano soldi, stabilì una tassa per pagare i lavori e assoldò i detenuti del carcere do Limoeiro per farli. Da allora la città è bianca e nera; tanto che negli anni Venti il Comune aveva alle sue dipendenze 400 maestri calceteiros» spiega Fernandes. Un’arte conveniente, nonostante i costi. «Anche se a conti fatti la calçada costa meno, perché le tessere si aggiustano con il muoversi del terreno, adattandosi all’accidentata orografia di Lisbona e durando potenzialmente in eterno». Un’arte che la crisi sta portando via. «Quattro anni fa ha chiuso la Escola de calceteiros. Il mestiere è faticoso e mal pagato e ora si lavora sempre meno». Avanti di questo passo a Lisbona toccherà camminare con il naso all’insù. Cercando i disegni nelle nuvole, invece che per terra.