Il Viaggiatore. A Gerusalemme

Franco Spuri Zampetti

L'American Colony Hotel di Gerusalemme , dagli inizi del Novecento è la meta preferita di attori, politici, cantanti e spie. Un'oasi di pace nella zona più calda e conflittuale del pianeta. Da scoprire magari sorseggiando il miglior whiskey scozzese al bar dell'albergo in compagnia di qualche vip più o meno in incognito.

Il palazzo ottomano di pietra chiara su Nablus Road, a poca distanza dalla Porta di Damasco e dalla città vecchia, passa quasi inosservato tra i minareti e i disordinati edifici di al-Quds, la Gerusalemme araba. Ma non c’è tassista, viaggiatore, diplomatico, uomo politico o giornalista che non sappia dove si trovi l’American Colony, il più celebre albergo di Terrasanta e dell’intero Medio Oriente. I primi proprietari, Anna e Horatio Spafford, erano arrivati da Chicago nel 1881, dopo la tragica scomparsa delle loro quattro figlie in un naufragio: devoti cristiani, guidavano una colonia di idealisti americani e svedesi impegnati a soccorrere gli indigenti.
Acquistato da un pasha turco, il palazzo divenne noto agli europei fin dal 1902, quando il barone Platon von Ustinov (il nonno dell’attore Sir Peter Ustinov) lo elesse ad alloggio per sé e per i suoi ospiti in visita alla Città santa. Le sue stanze e l’ovattato patio interno, profumato di zagare e protetto da sguardi indiscreti, hanno accolto i grandi del Novecento, da Winston Churchill a Marc Chagall, da Lord Balfour a Lauren Bacall, dall’imperatore d’Etiopia a Bob Dylan.

Un lenzuolo dell’hotel fu utilizzato come bandiera bianca nel 1917 per segnalare alle armate inglesi del generale Allenby la resa di Gerusalemme e la fine della dominazione ottomana. Al Colony Lawrence d’Arabia concesse la prima intervista a Lowell Thomas, il reporter che lo rese leggendario. Fu nella Pasha Room dell’hotel che, durante la guerra del 1947, l’emiro Abdullah negoziò in segreto la spartizione della Palestina con il futuro premier israeliano Golda Meir (travestita da uomo). Ed è nella camera 16 dell’ala antica che nel giugno 1992 israeliani e palestinesi s’incontrarono in segreto per imbastire gli accordi di Oslo.

«Il colony è un’oasi di pace nel mezzo dell’area più calda e conflittuale del pianeta» diceva con orgoglio la nipote degli Spafford, Valentine Vester, scomparsa nel 2008 all’età di 96 anni e per quasi mezzo secolo alla guida dell’hotel di famiglia (gestito dalla prestigiosa catena Leading Hotels of the World).
Nulla è cambiato. Nella hall può capitare di imbattersi nel mediatore palestinese Saeb Erekat o nello scrittore israeliano David Grossman; in una suite al primo piano passa talvolta la notte l’ex primo ministro britannico Tony Blair, rappresentante del Quartetto (Usa, Onu, Ue e Russia) per la pace in Medio Oriente; ai tavolini di ceramica armena del patio siede spesso Mordechai Vanunu, il tecnico nucleare che ha scontato 18 anni di carcere per avere rivelato il programma atomico top secret di Israele.

Non c’è dunque da meravigliarsi se gli inviati di tutti i media del globo, quando sbarcano in Palestina, si danno appuntamento al bar del Colony, mescolandosi a spioni, turisti di passaggio, notabili arabi, intellettuali e uomini d’affari ebrei. Al banco, l’impassibile Ibrahim, in giacca nera e cravatta di seta, serve i migliori cognac e single malt scozzesi dell’intero mondo arabo, accompagnati dall’ottimo jazz del suo stereo e dai sigari cubani che conserva in un capace umidificatore di legno scuro.
«Se aspettate la fine del mondo» ha scritto lo storico israeliano Tom Segev «non c’è posto più piacevole o adeguato del patio dell’American Colony Hotel».

Fotografie di: Franco Spuri Zampetti
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