Il lato b(each) di Miami

Andrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea Forlani

South Beach e tintarella, Ocean Drive e art déco, e poi veline, calciatori, gossip, leggende di gangster e serie tv. Tutto vero, ma Miami è pure Wynwood e cultura. Sì, e arte, musica, spettacoli e graffiti. Lo sanno anche i muri. Per conoscerla basta saltare in sella a una Vespa. Il casco non è obbligatorio, ma gli occhiali da sole sì.

Cronache marziane. Il volo diretto da Milano a Miami dura una decina di ore. Dieci ore durante le quali emergono altrettante associazioni mentali legate a un posto come Miami. A ciascuno le sue. Veline e calciatori, per i malati di gossip. Spiagge e mare caraibico per i fanatici della tintarella. Mafia e criminalità per i videodipendenti che non si son dimenticati di Al Pacino in Scarface e di Don Johnson in Miami Vice (o pensano alle più recenti avventure del serial killer Dexter). I palazzi art déco per chi è attento allo stile. Con tutto questo in testa e con la convinzione che si tratti della capitale mondiale dell’edonismo, si rischia di sbarcare dall’aereo cercando solo conferme. Perché ci sono, a portata di mano, e facili da raggiungere. Basta andare a South Beach, fare due passi sull’Ocean Drive, spalmarsi un po’ di crema solare e il gioco è fatto. Una settimana che si incastra nei luoghi comuni. Le cronache marziane potrebbero finire qui con una sequenza spiaggia, cibo, discoteca. Personalmente sarebbe un mezzo incubo foriero di eritemi, scottature, stanchezza cronica.

Schiodarsi da Sobe (perché è così che dal secondo giorno di permanenza tutti chiamano South Beach quasi fossero di casa) non è facile per chi cerca solo relax, ma sarebbe un peccato non farlo. Miami è grande ed è una delle città più interessanti dal punto di vista culturale che la cronista marziana abbia avuto l’occasione di visitare (e non sono i postumi di un colpo di sole a parlare). In sella a una Vespa con casco (non obbligatorio) e occhiali da sole (obbligatori) la prima tappa che dimostra l’assioma Miami uguale cultura è a Wynwood, quartiere incastrato tra Little Havana a sud e Little Haiti a nord. Un’infilata di capannoni a destra e a sinistra. Warehouse li chiamano qui, magazzini. Qualche vetrina di negozi di abbigliamento improbabile. Non mancano nemmeno gli homeless che nel resto della città sembrano banditi. E poi un’infilata impressionante di graffiti. Benpensanti e schizzinosi a questo punto farebbero retromarcia per tornare di corsa in spiaggia. Peggio per loro. I muri colorati fanno parte di un progetto che l’amministrazione cittadina autorizza e sostiene. I Wynwood walls sono giardini pubblici sui cui muri perimetrali i migliori street artist sono invitati a dipingere e condividere e da lì la creatività si espande sui muri senza finestre dei magazzini di cui sopra. Contro il grigiume. Contro l’emarginazione estetica. Per ridare vita a un quartiere non proprio attraente altrimenti, dove una poliziotta a cavallo continua a fare il giro in strade spesso deserte.

Il passaggio successivo (dopo un pranzo corroborante al Wynwood Kitchen & bar dove le specialità della casa sono cibo fusion e arte tutt’intorno) è entrare in alcuni di questi warehouse. Due, in particolare, sono da non perdere: il Bakehouse Art Complex e la Margulies Collection. Agli antipodi per spirito e approccio, ma con un minimo denominatore comune, l’arte contemporanea. Il primo, ricavato negli spazi di un ex panificio industriale è un esperimento ben riuscito di convivenza e collaborazione. Circa 70 artisti hanno aperto qui i loro studi dove producono, pensano ed elaborano. In più non mancano anche gallerie, laboratori fotografici e altre facility, come le chiamano qui, comodità per creare. Chiunque può entrare a curiosare e parlare direttamente con gli artisti. Una comunicazione senza intermediari che, in questo caso, rende tutto più libero. Tenendo conto che Miami è uno dei mercati d’arte più redditizi e costosi, tanto che qui si svolge l’edizione americana di Art Basel, la celebre fiera d’arte contemporanea, questo esperimento assume un tono pop, nel senso di popolare, che ben si incastra in Wynwood, ma anche nel marziano che è in noi.

Il secondo magazzino nel quale entrare è invece un piccolo shock, soprattutto per chi conosce musei come la Tate Modern di Londra, la fondazione Beyeler di Basilea o il Moma di New York. La Margulies collection at the Warehouse è una collezione privata che se in Italia ci fosse un museo d’arte contemporanea con tale patrimonio potremmo smetterla di parlare della ricchezza dei patrimoni esteri. L’incontro con Martin Z. Margulies è un colpo di fortuna. Multimilionario, proprietario di mezza Miami (sussurra una delle sue assistenti), collezionista per amore come ci tiene a raccontare: «Quando ero all’università mi innamorai di una compagna di corso. Io seguivo solo lo sport, lei era molto appassionata d’arte. Su suo suggerimento comprai il primo quadro. Lei non si innamorò mai di me, ma io scoprii quale fosse la mia vera passione: l’arte. La cosa divertente è che ora lei si occupa di sport!», racconta mentre mostra alcuni dei gioielli di famiglia esposti in uno spazio di 4.200 metri quadrati.

«In realtà questa è una piccola parte della mia collezione, i pezzi migliori me li tengo a casa!» dice e gli scappa da ridere. Pare che possegga circa 4mila opere, dalle foto alle installazioni e visto che qui sono esposte sculture di Anselm Kiefer e Richard Long, opere di Mirò e de Kooning, c’è da domandarsi che patrimonio sia quello che ha anche solo sul comodino di casa. Rimane il fatto che abbia deciso di condividere la sua fortuna con chiunque voglia visitare il Warehouse. E il fatto che costi dieci dollari entrare non denota tirchieria, ma un aspetto di Margulies fondamentale, la filantropia. Perché quei soldi sono destinati a finanziare una casa per donne homeless e per i loro bambini. Solo uno dei progetti di questo non più giovane, ma iperattivo personaggio che va in giro per il mondo a fare shopping («la Biennale di Venezia è uno dei miei momenti preferiti»), ma che ama condividere i suoi acquisti con tutti contribuendo anche a finanziare musei e istituzioni un po’ ovunque.

Salutato Margulies, è il momento di risalire in sella alla Vespa e ripartire. Sui muri continuano a scorrere storie e colori. Il sole non dà tregua, e ci ricorda che siamo a Miami. Ci vorrebbe un tuffo, ma rimandiamo a più tardi. La tappa successiva è più a nord, alla Cisneros Fontanals art foundation, altri collezionisti potentissimi in città, che hanno deciso di investire in una fondazione no profit che sostiene artisti latinoamericani. I Fontanals sono magnati della tv venezuelani, ma hanno una fissa: educare all’arte. Mai vista una cosa simile su Marte o perfino in Italia. Stesso obiettivo si pone anche il nuovo museo di arte contemporanea progettato da Herzog & de Meuron, architetti svizzeri molto prolifici, che sarà inaugurato a breve, forse in tempo per la prossima edizione di Art Basel Miami che si svolge a dicembre.

Tempus fugit ed è il momento di abbandonare la vespa per darsi un tono, ma non troppo. La lunga notte incombe. La temperatura scende di poco. L’indecisione è se andare all’Adrienne Arsht Center per assistere a una performance di danza o al New World Center per un concerto della New World Simphony. Optiamo per il secondo, rimandando l’altro alla sera dopo. Il New World Center è opera di Frank Gehry, archistar internazionale che ha realizzato una sala per concerti di ultima generazione sia all’interno sia all’esterno. Di nuovo il dubbio: entrare o stare fuori? Sì perché il bello di questo posto è che su un muro esterno antistante un parco viene proiettato quello che succede dentro con un sistema acustico perfetto. A suonare giovani musicisti invitati da ogni parte del Paese per un periodo di perfezionamento con borse di studio e possibilità di migliorare. Non male. Forse siamo davvero su Marte. Il direttore d’orchestra Michael Tilson Thomas racconta di come ha convinto Gehry a realizzare il New World Center: «Lo conosco da tantissimo tempo, era il mio babysitter!». Forse è una leggenda, forse no, ma è bello crederci perché è bello tutto e l’entusiasmo all’americana fa alla svelta a coinvolgere e a prendere piede.

Prende piede anche un appetito da leoni. La scena gastronomica di Miami meriterebbe un racconto a parte con alcuni dei migliori chef del mondo che si sfidano da un ristorante all’altro. Il Bâoli è a portata di piedi (sì perché se c’è una cosa a cui costringe Miami è l’uso esagerato dell’auto) ed è tra i più alla moda, nonché buono. Lo spettacolo tutto intorno è la sintesi di quello che ti aspetti: bionde ossigenate e gonfiate, giovanotti ipermuscolosi e facce bruciate dal sole. Improvvisamente il caldo aumenta perché la barista decide di dare letteralmente fuoco al bancone, mentre i camerieri improvvisano show da giocolieri. Un circo. Ma ci sta anche questo. È giusto vederne entrambi i lati, quelli più evidenti ed esibiti, meno intellettuali, in spiaggia o sulla mitica Ocean Drive dove si alternano i bellissimi edifici art déco e i palazzi moderni. Attraversando i ponti che collegano le tante isole che formano la città. Percorrendo le infinite highway, le autostrade, che conducono alle aree residenziali con le ville e i campi da golf. Ammirando dal basso gli altissimi condomini, tutti alla ricerca di una vista mare, più o meno vicina. Miami alla fine è anche questa.
Ps: per la cronaca, durante il soggiorno non abbiamo incontrato veline e calciatori, ma nemmeno Dexter, per fortuna.

Fotografie di: Andrea Forlani
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