di Stefania di Pasquale | Fotografie di: Franco Cappellari
Simili a enormi ragni piantati nel mare, sono stati per secoli le case da pesca di contadini di terra poco avvezzi a navigare. Sparsi tra Abruzzo, Molise e Gargano, da Ortona a Termoli, a Peschici, oggi restaurati e ancora in uso, rivivono anche come luoghi ospitali e accoglienti per i visitatori
A guardarli dal mare i trabocchi sembrano tanti spaventapasseri in fila, ma dall’alto dell’abbazia di S. Giovanni in Venere nel Teatino, appaiono più come strane penisole architettoniche, dal sapore arcaico. «Ragni colossali» li definì d’Annunzio, la cui immaginazione diede un’anima a queste costruzioni: «... La macchina che pareva vivere d’armonia propria, avere un’aria e un’effigie di corpo d’anima...».
I trabocchi sono macchine da pesca che punteggiano la costa adriatica abruzzese (44 km da Ortona a Vasto), dove la concentrazione è più alta, quella molisana di Termoli e quella pugliese, da Peschici a Vieste (ma si trovano anche nel Ravennate e a Grado). Un groviglio di funi, legni e ferri; palafitte che ancora oggi svolgono la loro funzione primaria: pescare. E il sistema è molto semplice: una passerella di legno, un piano fatto di assi, l’argano e le antenne da cui calare la rete. Ma subito, a un primo sguardo, appare evidente che questo ragno ha una sua specialissima genetica, che tra le reti e i pali conficcati in mare c’è molto di più di quello che sembra. La storia del trabocco (in Puglia si chiama trabucco) si perde nella storia e quello che a noi oggi arriva è un racconto in bilico tra verità e leggenda ancora avvolto nel mistero. A partire dal nome, sulla cui origine si fanno numerose ipotesi: trabocco da trabocchetto o per i pali conficcati tra i buchi? La più verosimile è quella legata agli uomini che l’hanno costruito, contadini alla conquista del mare: l’argano ricorda il meccanismo del frantoio, il trabiccolo usato per la spremitura delle olive. La storia dei trabocchi di punta Tufano, punta Cavalluccio e punta Rocciosa, è l’epopea di una famiglia attraverso i secoli. Sì, perché Rinaldo, Tommaso, Bernardino sono alcuni dei nomi dei proprietari, ma il cognome è sempre lo stesso: Verì. Rinaldo, proprietario del trabocco di punta Tufano, mi racconta le origini dei suoi antenati legando agli eventi storici della sua terra ciò che gli è stato tramandato dal padre. Rinaldo non ha ereditato il trabocco, l’ha comprato da due anziani Verì, forse parenti, nel 2004: poco più di quattro assi cadenti che nel giro di due anni ha trasformato, ricostruendolo con le sue mani secondo il progetto originale, in un vero trabocco.
L’origine della famiglia Verì è francese. I primi arrivarono qui nel 1700, erano di origine ebraica. Contadini, si stabilirono lungo la costa e coltivarono la terra «soprattutto agrumi – racconta Rinaldo – una tradizione che resta ancora oggi». Ma fare l’agricoltore così vicino al mare significa conoscerlo a riva. Quando le seppie o i polpi arrivano, allora, basta calare una rete e si pesca senza bisogno di uscire: la piccola pesca per un contadino di queste terre fu quindi normale, naturale. Il trabocco no. Perché il passaggio da contadini a traboccanti è uno straordinario esempio del genio umano. Il trabocco è un prolungamento verso il mare di persone saldamente ancorate alla terra. Ecco l’intuizione: qui la costa adriatica è frastagliata e ricca di scogli. E allora, perché non sfruttarli costruendovi sopra una passerella e una piattaforma da cui calare la rete? Nei secoli la tecnica si è affinata: l’aggancio allo scoglio cambia e nella roccia viene messo non più il tronco, ma la rotaia, si usa l’acciaio e spariscono i chiodi per essere sostituiti dai bulloni. Cambia il tipo di legno, passando alla robinia molto più resistente. «Costruire un trabocco è un’esperienza affascinante – racconta inaldo Verì – perché risponde a leggi della fisica un po’ diverse da quelle di una casa. Ho scoperto che bisogna tenere conto del moto ondoso, ed è incredibile come il trabocco sia pensato per attutire l’impatto e reggere la forza del mare in tempesta». Il foro nella roccia – di forma trapezoidale – veniva fatto con martello e scalpello: così lo ha fatto anche Rinaldo. Una volta infilato il palo, gli angoli vuoti venivano riempiti con delle zeppe di legno che, bagnandosi con le mareggiate, si allargavano e facevano l’effetto «tappo di spumante». Il palo era così definitivamente fissato alla roccia. Una sfida con se stessi. «La parte più sorprendente sono le antenne – continua Rinaldo – ricostruirle significa capire come l’uomo sia arrivato ad affinare l’ingegno al punto da studiare, solo con l’esperienza, un sistema di scarico delle forze veramente moderno».
Tra le file di palazzine affacciate sul litorale i trabocchi sembrano extraterrestri del passato. E anche i traboccanti si stanno trasformando, il mare non è più pescoso come un tempo, e la ristorazione è l’attività principale: pur continuando a calare le reti, i proprietari comprano altro pesce da poter integrare. Lo spirito del «pescato e mangiato» sul trabocco è, in molti casi, tramontato. Questa è la grande sfida che oggi devono affrontare i Verì: trovare l’anello di collegamento tra il loro antenato Vitantonio che appendeva la maglietta bianca alle antenne per segnalare alla moglie che aveva pescato, e l’evoluzione della propria terra, con i pro e i contro, in cui inserire una dimensione culturale e non soltanto economica, il genio oltre alla necessità.