di Barbara Gallucci | Fotografie di: Rocco De Benedictis
Polignano a mare è la città di Domenico Modugno e di Pino Pascali. La loro eredità artistica continua nel tempo grazie a scultori, pittori e scrittori che qui trovano ispirazione e occasioni di confronto. A picco sul Mediterraneo.
Le case del centro storico di Polignano a Mare sono aggrappate a uno sperone di roccia di venti metri, a picco sull’Adriatico. Da secoli sfidano buon senso edilizio e venti talvolta particolarmente aggressivi. Molte hanno anche piccoli balconi a strapiombo che sembrano trampolini per i tuffi. Sotto solo roccia e mare, grotte e onde. Alle spalle di questa muraglia architettonica un intricato reticolo di vicoli, piazzette e altre case. Passeggiando si sentono conversazioni, l’imperitura sigla di un telegiornale, profumo di cucina... Molto pittoresco direbbero turisti inglesi o americani. Quelli italiani ci vengono per mangiare il gelato (solo qui c’è il Super mago del gelo, in piazza Garibaldi), fare due passi dopo cena, sentire l’odore del mare e del vento. Se si fermassero un po’ di più scoprirebbero che Polignano ha una peculiarità: custodisce storie per raccontarle solo a chi sa ascoltare. Storie che parlano di musica, scultura e libri.
La prima storia inizia nel 1928 quando nasce, proprio a Polignano, Domenico Modugno. Ma è un racconto breve che finisce poco dopo, nel 1935, quando il cantante ancora bambino si trasferisce con la famiglia nel Salento. Per celebrare il fugace passaggio polignanese, nel 2009, è stata eretta una statua sul lungomare (Modugno), a lui dedicata. Dopo lunghe polemiche sulla collocazione (sostanzialmente in mezzo a un parcheggio) e sulla posizione (con il mare blu dipinto di blu alle spalle), poco sensata ma più fotogenica, oggi Modugno abbraccia idealmente la cittadina, ma standosene un po’ in disparte. Per dirla tutta, lui nel centro storico non ci mette piede da quasi ottant’anni...
Manca da un po’ anche il protagonista della seconda storia: Pino Pascali. Se con un personaggio come Modugno si andava sul sicuro, con Pascali è necessario dare qualche dettaglio in più per delineare il personaggio. Dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse tra Bari, Polignano e l’Albania, dove il padre poliziotto si ritrovò a lavorare negli anni dell’occupazione italiana, Pino va a Roma per frequentare l’accademia di Belle arti. Una volta finita inizia a lavorare per la pubblicità.
È l’epoca dei caroselli e lui ne disegna alcuni in collaborazione con Sergio Lodolo, regista, sceneggiatore e grafico. Ma la pulsione creativa di Pascali è dirompente. Gli servono le tre dimensioni. E inizia a scolpire. Niente marmo e scalpello, ma materiali da assemblare, forme da creare, tagliare, saldare. Tra il 1965 e il 1968 passa dalla riproduzione di armi agli animali (finti) decapitati, dalle pozzanghere ai “bachi da setola”, non perde nemmeno l’occasione di applicarsi a performance filmate. Una corsa breve, ma intensissima, interrotta prematuramente da un incidente in moto a 33 anni. «Al funerale, qui a Polignano, si presentarono centinaia di persone», racconta Rosalba Branà direttrice del museo a lui dedicato che si trova di fronte allo scoglio dell’eremita: «I genitori non si erano resi conto di quanto fosse amato loro figlio. Non solo dalla comunità artistica romana dell’epoca, da personaggi della tv, ma anche da intere famiglie di rom con le quali chiacchierava mentre andava alla ricerca di oggetti e materiali nelle periferie della capitale, e dai biker, gli appassionati di moto, come lui». Oggi al museo sono esposte alcune sue opere (molte altre sono ovunque nel mondo, da Parigi a New York), e alcuni cimeli donati proprio dai genitori di Pascali, compresa la giacca che indossava al momento dell’incidente. «Tra le attività più importanti che svolgiamo qui c’è il premio Pino Pascali che, ogni anno, viene assegnato all’artista più o meno affermato che, in qualche modo, conserva il linguaggio comunicativo di Pino», continua Branà. Ma il museo, inaugurato nella sua nuova sede un anno fa, si propone anche di essere uno spazio aperto al pubblico non solo come sede espositiva. Giovani artisti presentati da giovani curatori hanno il loro spazio, i bambini possono frequentare laboratori ad hoc, i ragazzi dell’accademia possono optare per i workshop. E tutto questo a Pascali sarebbe piaciuto parecchio.
L'eredità dello scultore, spesso indicato come rappresentante dell’arte povera (perché in Italia c’è bisogno di definire anche l’indefinibile), è stata in seguito raccolta, quasi casualmente in apparenza, da una serie di artisti di diverse generazioni che hanno scelto Polignano per vivere e creare. C’è il polignanese doc Peppino Campanella che dopo gli studi in architettura a Firenze è tornato a casa nel suo «laboratorio di trasformazione della materia vetrosa» come lui stesso definisce il suo studio che si trova in posizione invidiabile a ridosso della Lama monachile, una suggestiva ansa a ridosso del centro storico. Con le sue mani realizza lampade, specchi, quadri, tutti partendo dal vetro, spesso di scarto: «Mio padre noleggiava flipper. Forse da lì mi è rimasta la passione per le luci sotto un vetro!». E poi c’è la piccola comunità dell’abbazia di S. Vito, pochi chilometri a nord, lungo la costa. Un luogo che si può definire spettacolare senza indugi e pudori. «Dove c’erano le celle delle suore abbiamo ricavato il nostro appartamento», racconta Miki Carone, scultore, pittore, mosaicista, influenzato dal mare e dalla commistione da cultura pop e classica, che qui ha anche il suo atelier. Vicino di casa Claudio Cusatelli che realizza quadri con i colori a cera che poi scava con lamette per ricreare impronte digitali e mappe, ma anche ritratti: «Il mio lavoro più recente si chiama Cattivi maestri, settanta personaggi che hanno segnato la mia formazione e quello che sono oggi», racconta. Ultimo arrivo nella “comune” artistica dell’abbazia Giuseppe Teofilo, intento a disegnare una delle sue composizione ittiche. «Mio padre è un pescatore, non lo fa di lavoro, ma ama uscire in mare. Forse è da lì che viene l’ispirazione per i miei lavori, come le barche a dondolo...» racconta Teofilo nel suo appartamento-studio. Spesso si trovano tutti insieme per quelle che chiamano le «riunioni di condominio», cene comunitarie in abbazia con vista mare. La descrizione di una di queste serate meriterebbe un capitolo a parte, ma c’è ancora una storia che manca all’appello.
A raccontarla è Rosella Santoro, vulcanica insegnante di Bari che su Polignano ha deciso di investire. Ha messo in piedi dal nulla, insieme a Gianluca Loliva, Gabriella Genisi e Pino Pascale, un festival letterario, Il libro possibile, per quattro giorni a luglio (quest’anno, per la XII edizione, dal 10 al 13) stravolge il centro storico trasformandolo nel palcoscenico più bibliofilo d’Italia. «Il centro storico è invaso da scrittori e lettori che passano da un incontro all’altro. In piazza S. Benedetto, in alcuni vicoli o scorci speciali, la gente si abbarbica un po’ dove riesce», spiega: «E la cosa ancora più bella è che, in quei giorni, gli autori e molti personaggi pubblici stanno qui a Polignano e si godono la città come se fossero di casa. Ci sarebbero degli aneddoti da raccontare...». Tra i nomi che si sono avvicendati nel corso degli anni si va da Federico Rampini a Serena Dandini, da Roberto Saviano («lo ospitammo prima che Gomorra diventasse un best-seller e lui per questo è molto affezionato a Polignano») a Gianrico Carofiglio, da Dario Vergassola a Laura Boldrini, neo presidente della Camera. «Ci sono momenti in cui, durante un incontro, non vola una mosca... Solo qualche folata di vento spezza il silenzio», conclude Santoro. Le stesse folate di vento che stanno mettendo in difficoltà una signora che cerca di stendere sul suo balcone a picco sull’Adriatico. Sotto solo rocce a mare. Tutt’intorno tante belle storie ancora da raccontare.