di Isabella Brega | Fotografie di: Zoe Vincenti
La cultura dei mastri artigiani milanesi risale all’epoca dei Visconti. Ed esprime una freschezza inventiva e una creatività autentica che custodiscono il senso più schietto del nostro saper fare, dello stile italiano. Così l’artigianato di trasforma in una possibilità di riqualificazione per uscire dalla disoccupazione e provare nuove strade
Milano conosce l’emozione. La Metropolis dall’anima di ferro, la città da bere volubile e modaiola degli anni Ottanta riesce a coniugare bellezza e creatività, fantasia e rigore. Milano ignora la seduzione, è diretta e cinica ma sa essere cuore e passione. Qualcosa di più della capitale della moda e del design, una città conformista e rivoluzionaria, un laboratorio di tecniche ma soprattutto di idee che ha il coraggio di investire nell’eccellenza e mischia tradizione e sperimentazione nel segno del miglior made in Italy.
Un’eccellenza nel fare che nasce dal dialogo costante fra creativi e artigiani. Uno stile unico che non si limita a essere mero custode della tradizione, crea immagini e forme, traduce in oggetti il bello e l’utile. Nella Milano che corre sempre ci sono persone che hanno deciso di fermarsi, di rinnegare l’aforisma di Benjamin Franklin «Il tempo è denaro» e sono tornate a dare un senso alla materia e ad assecondare il ritmo e il respiro dell’uomo.
Qui ci sono artigiani che non collezionano chimere, figli che credono nel sogno di eternità della famiglia, laureati che si sono rimboccati le maniche e hanno scelto di sporcarsi le mani. Uomini e donne che non si omologano, che testimoniano un altro modo di pensare il mondo, dove il lavoro quotidiano umile e silenzioso smentisce la logica dominante del mercato globale. Milano sa negoziare stile e gusto ma non scende a patti se non con se stessa. Affonda le proprie radici nell’epopea dei Visconti, divora il presente e scommette sul futuro sforzandosi di capire, tradurre e aggiornare la tradizione, lavorando sulla trasmissione delle tecniche produttive e sul rinnovamento generazionale.
I corsi dell’Università Cattolica sui Sistemi di gestione dei mestieri d’arte, le iniziative della Scuola Cova, della Fondazione Cologni e della Fondazione Lanfredini sono segnali per un mercato postindustriale e in crisi che non richiede più solo talento, abilità manuale, competenza tecnica ma anche capacità organizzativa, e indicano nuovi sbocchi occupazionali a una generazione che ha visto gli atenei italiani perdere in 10 anni 50mila iscritti. Certo i problemi sono sempre quelli, l’accesso al credito, la concorrenza di prodotti tipici imitati all’estero e poi importati, le limitate risorse per affrontare il mercato internazionale, il bisogno non solo di tutela ma anche di promozione contro lo strapotere del mercato globale di questa grande risorsa economica. Una conferma dell’interesse da parte del pubblico viene però proprio da Milano, dove la rassegna L’artigiano in Fiera attira annualmente più di tre milioni di visitatori, segno che, accanto alla serialità e alla ikeazizzazione c’è la voglia di oggetti unici, non sottomessi all’appiattimento della serialità. Oggetti che mantengono il senso di una storia, l’impronta di un uomo e delle sue scelte.
Un giardinetto asfittico, piante e biciclette che si arrampicano sulle pareti. Dialetto, buon senso e pragmatismo tutti milanesi. Sulla porta un cartello ammonisce «Il Drali è ancora vivo». Sì, perché a 85 anni suonati Giuseppe (Beppino) Drali non rinuncia certo a tira su la claire, così come non può fare a meno di un buon salame («Grasso, se no che salame è!») e del risotto con la salsiccia che gli cucina la Marisa, 51 anni di matrimonio e di armonia. Beppino, schivo come i veri milanesi, è un uomo felice, in pace con se stesso, pago di una vita di onesto lavoro e del suo piccolo mondo antico. Un microcosmo di pochi metri quadrati fatto da Marisa, dalle bici e dalla “bambina” Beatrice, un bracco di quattro anni strappato a un pollaio doveva viveva di stenti e ora reginetta nel piccolo negozio in cui si avvicendano clienti-amici che gli hanno persino creato un sito, lebicidelDrali, che lui può guardare solo se qualcuno gli accende quel vetusto computer che troneggia sul bancone come un soprammobile.
Cresciuto tecnicamente alla severa scuola di papà Carlo prima e della mitica Bianchi poi, questo maestro dei telaisti nel suo rebelott ripara bici («Ora tutti vogliono il carbonio ma spesso sono cadenass, tre tubi impastati insieme») e costruisce ancora qualche Pokerissima, la Drali marchiata con le carte del poker, la bici in acciaio Columbus “ricamata” a mano a forza di lima con sudore, passione e competenza. E rispetto. Per il lavoro, per i suoi vecchi e, cosa rara per la sua età, per i giovani di oggi «Non è vero che non hanno voglia di lavorare, hanno più testa di quanta ne avessi io alla loro età». Il ricordo dei tempi passati, poveri ma felici perché si avevano vent’anni. Il ricordo dei campioni conosciuti e di cui conserva alcune biciclette salvate dalla chiusura della Bianchi: Coppi («Un grissino»), Riviére, Longo: «Ma quello che conta è il corridore, non la bici, se la rusava no l’andava no. Non è il telaio che non rende più, bisogna cambia i gamb». Non ha paura del futuro Beppino, anche se «Fra dieci anni verrano i cinesi a far lavorare noi!». Il Drali è ancora (più che mai) vivo...
Artigianato e arte si incontrano alla stamperia di Giorgio Upiglio, classe 1932, una vita fra artisti e inchiostri, torchi e bellezza. Musica classica, poltrone di cuoio macchiate dal lavoro e dal tempo, una bottiglia di vino sempre pronta per quattro chiacchiere fra amici, Upiglio da 60 anni consiglia, assiste nell’incisione delle lastre artisti affermati e giovani squattrinati ma di belle speranze. Editore di quasi 300 libri d’artista, ha lavorato con 700 maestri, da Giacometti a Man Ray, da Baj a de Chirico. Tutti i grandi hanno varcato la sua soglia, si sono accalorati in discussioni confrontando opinioni e teorie, hanno sudato sulle lastre. Ora arrivano stagisti, studenti di Brera, ma non c’è stato ricambio generazionale né degli artisti né dei collezionisti: «Non ci sono più persone e luoghi che catalizzino l’arte italiana». Il sogno di Giorgio? Una mostra che accosti stampe brutte, ma firmate, a opere belle di sconosciuti: la classe non è una firma!
Il binomio arte-artigianato ritorna alla Fonderia Battaglia, che quest’anno festeggia un secolo di vita. Dalle copie dei cavalli di S. Marco ai giganteschi alberi di Penone, alle geometrie di Pomodoro, il bronzo scorre nelle vene, ricopre di polvere rosata e durante la fusione imbeve di una luce d’oro questi stanzoni in cui lavorano una decina di operai muniti di mazze e frese e fra i quali scivola leggera Camilla, riccioli ribelli, guance rosate e occhi vivaci. Quattro anni a Londra facendo la babysitter e studiando scultura. «Sono tornata in Italia perché noi sappiamo fare, è la nostra forza. Sono tornata a rubare il mestiere con gli occhi, a prendere schiaffi sul coppino fino a quando non ho imparato». E ha imparato Camilla, il ricordo del suo primo bronzo le illumina ancora gli occhi facendoli pizzicare.
Anche La stele di Manola e Gianluca si riallaccia alla tradizione artistica milanese. Dalla produzione settecentesca di Francesco Londonio agli ambulanti del XIX secolo, ai laboratori dove ai primi del Novecento si produceva arte sacra in cartapesta e caolino (cartone romano), la sola sopravvissuta del panorama meneghino, l’ex bottega di Annibale Ceruti, continua a vivere grazie a questi due giovani artigiani che, unici a Milano, realizzano e restaurano statue religiose in gesso e cartapesta con un modellato morbido e affusolato vicino al gotico francese. E presepi lombardi, sconosciuti ai più, contrariamente all’opulenta tradizione napoletana, ma caratterizzati in passato da una fiorente produzione legata a quegli scultori specializzati anche nei capiletto, madonne o sacre famiglie, che i mobilieri regalavano insieme all’arredamento.
Molti arrivano qui durante il periodo natalizio sulle tracce dei ricordi dell’infanzia, altri ancora per cercare nuove tradizioni: le figurine con i mestieri, piatte dietro, che sul camino affiancavano il gruppo della Natività, e l’immancabile pastore Gelindo, inginocchiato nell’atto di ofrire cibo. «C’era molta collaborazione fra le botteghe, a mano a mano che chiudevano, i titolari lasciavano gli stampi agli ex concorrenti. Probabilmente c’era anche una certa riserva nel distruggere l’arte sacra, e quindi non si è perso quasi nulla. Noi abbiamo ereditato molti stampi» racconta Gianluca, occhiali rialzati sulla folta capigliatura e un piccolo fabbro in gesso che occhieggia dalla tasca del grembiulone. Basta guardarsi intorno per crederci, i ripiani sono affollati all’inverosimile di statue e statuette, santi, madonne, papi e beati, dietro cui occhieggia la foto che li raffigura in un momento unico, mentre offrono un presepio a Papa Ratzinger lo scorso 2 giugno in Duomo.
L’argilla è invece la materia principe della Fornace Curti, un nome storico che risale alla Milano del Quattrocento e alla sua ricca produzione di formelle e fregi in cotto. Un grande laboratorio dove, accanto alla produzione di bassorilievi, statue, vasi e oggetti vari vivono una quindicina di atelier che a maggio aprono le porte ai visitatori. Dell’antica eccellenza viscontea nella produzione di gioielli, smalti e armature rimangono la Scuola orafa ambrosiana e molti laboratori orafi come quello di Antonella De Marchi e, nel campo dell’argento, grandi e piccole realtà, da De Giovanni a Sandri, ora specializzato in oggetti per il ricco mercato ebraico americano.
Ma oggi il lusso a Milano vuol dire moda. Le sfilate sono il trionfo della bellezza e del buon gusto. Armani, Versace, Valentino, abiti bellissimi che tutti conoscono, ma di cui ignoriamo gli artefici, i cui nomi sono conosciuti solo dagli addetti ai lavori. Firenze, Cantù e Burano sono da sempre associate all’arte del ricamo, ma il vero centro per la moda in questo settore è Milano, dove opera il re di tutti, Pino Grasso, medico mancato e allievo in Francia di ricamatori come Gaidan, Alfred e Leissange. «Il nostro compito? Abbellire un abito senza togliere l’essenza creativa dello stilista, la sua linea. La prima regola? Attenzione ai piccoli particolari, alla pulizia del lavoro, che va guardato dal retro. La seconda? Creatività e ricerca». Affiancato dalla figlia Raffaella e da una decina di lavoranti, Grasso segue la strada della sperimentazione. Plexiglas, plastica, madreperla, minuterie metalliche, fili elettrici, rafia: «Qualunque cosa la tua mente percepisca la puoi applicare. Da 200 anni gli attrezzi sono quelli, il cavalletto e l’ago, noi possiamo aggiornare solo i materiali». Grasso però non ama l’eccesso: «È sempre più difficile far percepire la qualità e la bellezza, oggi non si distinguono le cose belle da quelle che appaiono e costano poco. Conta solo stupire. Il nuovo non vuol dire necessariamente che sia bello, se è brutto è brutto. Non puoi far passare per bello ciò che è volgare solo perché è nuovo».
Verità e finzione, arte e artigianalità, quelle che convivono nell’Atelier Rancati, da quattro generazioni specializzata in attrezzeria teatrale. Una quindicina di addetti e un magazzino strabordante di 10.800 bicchieri, 18.200 spade, 3.200 anelli. E poi troni, corazze, elmi, letti tappeti... Con una sede anche a Roma, Rancati è ora guidata con piglio sicuro dai fratelli Cristina e Romolo Sormani. «Sono finiti i tempi in cui si lavorava con il legno, ora spesso sostituito da resina e poliuretano, anche se il costo maggiore non è il materiale ma la manodopera. La nostra rimane una produzione di eccellenza perché lavoriamo su richiesta dei registi». Straordinarie le armature di questi artigiani dei sogni, con pezzi che sono migrati da Thor ai Tudors, spettacolare la raccolta di bozzetti, frutto di collaborazioni con scenografi e costumisti, un patrimonio che, insieme agli attrezzi di scena, rappresenta la simbiosi perfetta fra il pensiero e il fare.
Eugenio Monti Colla è l’ultimo rappresentante della compagnia di marionettisti del teatro Gerolamo. Una storia nata nel Settecento da una famiglia di commercianti agiati, possessori di un teatrino di famiglia che, esiliati dopo la restaurazione francese, finì con l’essere una fonte di sostentamento. Itineranti fino al 1890, i Colla approdarono a Milano dove misero in scena spettacoli a sfondo pedagogico, spesso con un personaggio che rappresentava il buon senso comune e lo spirito del libero pensatore. Ieri come oggi tutto è fatto in casa, un gruppo di abili artigiani crea abiti, parrucche, armature, gioielli. Anche le marionette, teste, mani e piedi in legno di cirmolo, braccia riempite di segatura e occhi di vetro, nascono in via Montegani, tanto che dalle 613 del 1935 sono ora 2.600. Gli spettacoli stessi sono prodotti in casa, dalla scenografia alle luci. Se Carlo è il re, la fata di questo mondo incantato è Maria Pia Lanino, capelli bianchi e passione per i tessuti antichi, che riflettono meglio la luce, e che recupera nei mercatini e riatta in una stanzetta in cui troneggiano le ceste di due gattoni.
Nate per gli adulti, le opere dei Colla sono ora il regno magico di bambini cresciuti a playstation e computer ma che qui lasciano galoppare la fantasia perché, come dice uno di loro «Dopo tanti pulsanti mi sento libero!». Quei bambini che saltellano sulle sedie, ridono, si emozionano e a fine spettacolo corrono a baciare le marionette, nuovi compagni di avventura. Bisogna guardare in alto per cercare le radici di tanta poesia. Su su fino alle mani che danno vita ai personaggi attaccati ai bilancieri. Ma i bambini non si curano dei fili che li imprigionano. Anche a Milano il cielo sa essere leggero.