di Barbara Gallucci | Fotografie di: Andrea Forlani,Marco Pavan
La capitale polacca si è tolta la patina grigia dell’era comunista per diventare una meta di tendenza. Tra gallerie d’arte e movida, Varsavia è la città giusta per chi è in cerca di divertimento e cultura senza svuotarsi le tasche. Per un weekend originale all'insegna del buon vivere.
Primavera 2007, milano. L’arena compie 200 anni e un’allucinazione collettiva coglie chiunque si trovi a passare nelle sue vicinanze. Volteggia sul parco Sempione un enorme pallone gonfiato di circa venti metri a sembianze umane, nudo. Dopo qualche inevitabile polemica, i milanesi cominciano ad abituarsi e a prenderlo quasi in simpatia. Il mastodontico uomo fluttuante è un autoritratto di dimensioni esagerate di Paweł Althamer, artista polacco ingaggiato dalla Fondazione Trussardi per una mostra molto personale. Dopo un mese di volteggi sui cieli del capoluogo meneghino il gonfiabile è volato via, verso casa. Intendiamoci, è stato sgonfiato e trasportato con mezzi tradizionali, ma a casa, a Varsavia, è tornato davvero. Ora vola molto più basso però, in un enorme magazzino alla Soho Factory, ex polo industriale trasformato in uno spazio per l’arte, il design e la moda. Ce ne sono tanti nella Varsavia post comunista e post industriale, e tutti o quasi hanno cambiato funzione. Fuori le tute blu degli operai, dentro le idee dei creativi che affollano la città. Certo, non tutti puntano agli eccessi provocatori di Althamer, ma si respira una bella aria, unica in un’Europa affaticata e stanca.
Entrata da pochi anni nel circuito delle grandi capitali da non perdere per turisti, ostenta con allegria il suo centro storico, Stare Miasto, completamente ricostruito (Varsavia non è stata particolarmente fortunata nel corso della sua storia, anzi, si può senz’altro dire che la storia si è spesso accanita contro di lei), grazie ai dettagliatissimi dipinti di Bernardo Bellotto, nipote del Canaletto. Passeggiando verso il centro lungo un pezzo della lunghissima Strada reale (Krakowskie Prezedmiešcie) si susseguono eleganti palazzi e vetrine, ristoranti e panchine musicali (basta sedersi, pigiare il pulsante e partono musiche di Chopin, eroe locale più di ogni altro). Fino a raggiungere plac Zamkowy, la piazza del Castello, dalla quale si diramano stradine e vicoli che pullulano invece di negozi di souvenir e ambra. Un caffè ai tavoli della piazza del Mercato (Rynek Starego Miasta) è d’obbligo, ma non bisogna lasciarsi ingannare. Chi si accontenta di questa Varsavia se ne ripartirà con un’immagine della città in testa particolarmente limitata. Mai come in questo caso bisogna, invece, avere un po’ più di curiosità e coraggio per spingersi oltre. Fino al rondò Charles de Gaulle, per esempio. Due cose catturano lo sguardo: il possente e inquietante edificio che ospitava la Casa del Partito e un’altissima palma. Due elementi che più diversi non si può, ma se il primo uno un po’ se lo aspetta, l’altro sembra davvero essere fuori luogo. Scelta assurda di un botanico di origini tropicali afflitto da malinconia cronica? Provocazione della natura che non vuole rassegnarsi ai rigidi inverni continentali? Opera d’arte iper concettuale di un artista in vena di scherzi? Greetings from Jerusalem, saluti da Gerusalemme... a Varsavia. Il nonsense puro, ma d’effetto, è un’opera del 2002 di Joanna Rajkowska, altra artista contemporanea polacca con il senso scenico ben sviluppato.
C’è da dire che anche durante gli anni durissimi del comunismo reale la capitale polacca era la più scenografica, scintillante e luminosa delle città oltrecortina. Una fissazione, in particolare, è in parte sopravvissuta ai cambiamenti, quella dei neon. Tra gli anni Sessanta e Settanta a Varsavia si contavano migliaia di insegne luminose. Pubblicità, certo, ma anche opere d’arte che avrebbero fatto invidia a Milano, quando la signorina della Kores pigiava i tasti della macchina da scrivere di fronte al Duomo. Per vederne un gran numero di esemplari bisogna andare al Neon Muzeum che ne conserva a decine. La loro preservazione e valorizzazione è una sfida, tanto che anche la nuova sede del Museo di arte contemporanea ha mantenuto la scritta Emilia, nome del negozio di arredamento che prima occupava gli spazi. I lavori sono in corso, ma a breve ne è prevista l’inaugurazione. Un ulteriore tassello al mondo della creatività contemporanea di Varsavia che già occupa gli spazi del castello Ujazdowski, diretto dall’italiano Fabio Cavallucci, e della galleria nazionale Zacheta. E fin qui le istituzioni che dimostrano quanto governo nazionale e locale investano sulla cultura. Poi ci sono le decine di gallerie private. Ovunque. In vecchie fabbriche, in appartamenti più o meno ristrutturati, in ampi e luminosi loft, in piccole villette con giardino. Si chiamano Raster, Propaganda, Leto, Piktogram, Asymetria... In comune hanno una profonda ricerca intellettuale, la curiosità e l’apertura al mondo. Tanto che sono sempre di più i collezionisti che aggiungono Varsavia al tour di shopping a sfondo artistico.
Molti la segnalano come The next big thing (la prossima cosa grande, ma non rende allo stesso modo), come la Berlino degli anni Novanta. Ma ai polacchi non interessano tanto le definizioni, soprattutto se sono artisti e giovani galleristi mossi ancora da un sano ideale culturale piuttosto che dalle speranze di guadagni stellari. D’altronde per anni hanno lavorato underground, senza clamori, dribblando un passato di censure e un presente fatto di mode volatili. È la ricerca della libertà espressiva a ogni costo il mantra di tutti, lontana anni luce dall’omologazione.
E non ci stanno a farsi omologare nemmeno quando vogliono divertirsi. Tanto che, soprattutto venerdì e sabato sera, prendono e vanno a Praga. Non servono passaporti e lunghi viaggi, basta oltrepassare la Vistola e si arriva infatti nel quartiere meno scintillante ma più divertente di Varsavia che, caso strano e per varie ragioni sulle quali nessuno sembra essere d’accordo, si chiama Praga, all’italiana. Zona popolare, in gran parte con palazzi diroccati e vecchie fabbriche in fase di recupero, Praga ospita una serie di locali da scoprire mescolandosi tra la gente. Molti si trovano intorno alla ulica Listopada 11, dove capita di entrare in un buio cortile e di scoprire mondi interi. Spesso sono in appartamenti collegati tra loro da scale e corridoi, dove si può passare dalla disco anni Ottanta al concerto heavy metal, fino al cinema all’aperto o al salotto quieto dove bere un bicchiere e fare due chiacchiere. Si paga un euro per entrare e poi si può scegliere di cambiare tono e stile alla serata più e più volte. Anche bere costa poco, quindi al ritorno meglio affidarsi a uno dei tanti tassisti che stazionano davanti a questi agglomerati del divertimento. Le notti di Varsavia sono lunghe, fortunatamente poco glamour, alternative, anche in questo caso.
Testimone silenzioso di tutto questo fermento così poco in linea con mode e dettami globalizzati il palazzo della Cultura, il regalo di Stalin che si pagarono i polacchi, che oggi ispira quasi tenerezza. Ha perso la sua aria minacciosa, è stato sovrastato da grattacieli scintillanti più alti di lui, sembra quasi impolverato. Dal trentesimo piano si gode però ancora la vista migliore sulla città. Lui sta fermo e ben piantato e tutto intorno Varsavia cresce, cambia, si muove. L’unica che sembra non essersene accorta è l’ascensorista: seduta su uno sgabello, indossa divisa e guanti bianchi, schiaccia il pulsante con serietà, molto attenta a non sbagliare, immobile ma in perenne movimento. Una performance artistica inconsapevole lunga una vita. A Varsavia può succedere anche questo.