di Isabella Brega | Fotografie di: Maurizio Fabbro,/
Il Festival lirico compie cent'anni, 200 sono quelli dalla nascita di Verdi. Per festeggiare, oggi come un secolo fa si apre con l'Aida. E Verona ne approfitta con mostre ed eventi, rivendicando il ruolo di città della musica
Verona come La mecca. almeno una volta nella vita bisogna venire qui per assistere a una delle rappresentazioni dell’Arena. Quest’anno la motivazione è ancora più forte, la città infatti si appresta a festeggiare addirittura un doppio compleanno: il centenario del Festival lirico, il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi. Un’opportunità che la città non può permettersi di perdere. Un’occasione per rivendicare il proprio peso nel panorama musicale internazionale e ridefinire il rapporto fra la lirica e Verona stessa. Una scommessa, quella di diventare davvero capitale della musica, che ne rinverdirebbe l’appeal turistico, facendone una delle principali destinazioni per il 2013. Per non dimenticare poi il ruolo, fondamentale per il futuro di questo genere musicale, che potrebbe svolgere nell’avvicinare i giovani alla lirica. Sotto la sua scorza di città industriale, volente o nolente il cuore di Verona batte al ritmo della marcia trionfale dell’Aida, che inaugurò la prima stagione nel 1913, per il primo centenario della nascita di Verdi, e che lo farà anche nel 2013 con l’allestimento della Fura dels Baus.
Amato, vissuto, sopportato o in qualche caso persino sofferto dai veronesi, il festival lirico firmato dal sovrintendente di Fondazione Arena Francesco Girondini porta alla città un indotto economico di ben 450 milioni di euro, con un numero medio di spettatori per serata nel 2012 di 8.528 persone. Certo la crisi si fa sentire anche qui, e la passata edizione ha registrato un calo dell’8,4 per cento, cifra che in un momento in cui la gente taglia persino le spese per gli alimentari (con una contrazione nel settore spettacolo che raggiunge il 30-40 per cento), diventa quasi un successo.
Dal 14 giugno all’8 settembre Verona si riallaccia alla propria tradizione e scommette sul futuro: Plácido Domingo come direttore artistico onorario, 58 serate, sei opere in cartellone, tre gala, la Messa di Requiem di Verdi. Ciliegina sulla torta, Amo, il primo museo sulla lirica, nato in collaborazione con l’Archivio storico Ricordi e grazie alla determinazione della Fondazione Arena e della sua curatrice e direttrice, Kikka Ricchio, che dalla fine di aprile racconterà la grande avventura della lirica con una straordinaria esposizione a Palazzo Forti fatta di bozzetti, costumi, spartiti, autografi, foto, contenuti multimediali. E ancora tre mostre, di cui una permanente.
Con questo centenario l’Arena si apre al mondo così come ha fatto da qualche anno accogliendo eventi, concerti pop e spettacoli televisivi. Scelta che non ha mancato di suscitare critiche ma che non ha fatto che seguire la strada già intrapresa di smarcare la lirica dai tappeti di velluto rosso e dalle toilette elaborate per puntare alla sua spettacolarizzazione con i melodrammi areniani per eccellenza (quelli di maggiore coralità, come Aida e Nabucco) e avvicinarla a un pubblico che vive di tv e YouTube. In fondo un ritorno alla matrice di questo monumento, eretto nel 30 d.C., destinato a combattimenti fra gladiatori, giostre e cacce, nel medioevo luogo per esecuzioni e residenza obbligata per le prostitute. Qui Goethe assistette a uno spettacolo di pallone con bracciale e nel 1890 e 1906, sotto un tendone montato nell’Arena in grado di ospitare 12mila persone sedute, si esibì persino Buffalo Bill con il suo Wild West Show e un codazzo di indiani, cosacchi, samurai, come raccontò con entusiasmo un giovane cronista de L’Arena: Emilio Salgari. A quell’epoca la città veneta brulicava di animali esotici, circhi e, in quella che ora è via Mazzini, negozi dove si potevano ammirare dalla scimmia parlante al serpente a due teste. Cose che non lasciavano certo indifferente la fervida fantasia dello scrittore che, proprio attraverso una modernissima campagna di marketing, dalle pagine del giornale La nuova Arena per tre giorni aveva martellato Verona con l’annuncio che «la tigre sta arrivando», lanciando così il suo romanzo La Tigre della Malesia. È in questa smania di esotismo che nacque il Festival, all’aperto e inaugurato, guarda caso, dall’esotica Aida.
Se l’Arena chiama, Verona non può non rispondere, la sua tradizione musicale, la sua storia lo impongono. Solo Salisburgo può vantare un festival della stessa portata e fama. Quella Salisburgo che è la città natale di Mozart, come Verona lo è della Callas, greca sì, ma che proprio dall’Arena nel 1947 spiccò il volo. Qui la divina a 23 anni debuttò nella Gioconda di Ponchielli sfoggiando gioielli veri e falsi: una coroncina dell’atelier Marangoni e un monile, il primo di una lunga serie, uno per ciascuna opera inserita in repertorio, regalo del suo pigmalione, poi marito, quel Giovanni Battista Meneghini che smise i panni di industriale per trasformarsi in manager. Sotto la sua abile e innamorata regia, Maria, oltre 100 chili di talento, goffaggine e determinazione, si trasformò nella mannequin di Biki. Una pericolosa cura alla tiroide a base di iodio (altro che tenia ingerita con una coppa di champagne!) le regalò una linea invidiabile ma anche una instabilità d’umore che negli anni dell’abbandono del grifagno Onassis e del declino artistico contribuì a farne una donna prigioniera della propria infelicità. La Callas cenava alle Tre Corone e ai 12 Apostoli e faceva incursioni nelle cucine per strappare agli chef segreti e ricette di pearà (salsa con pane grattugiato, midollo di bue, brodo di carne e pepe) e lesso che poi archiviava fra i suoi 40 libri di gastronomia.
Il Festival non vive tanto di opere quanto di gente. L’Arena stessa non è immaginabile senza quegli spettatori che la completano, diventando protagonisti essi stessi insieme a un esercito di 145 professori d’orchestra, 60 ballerini, 164 coristi e 260 fra figuranti e comparse, in gran parte studenti, sarti, elettricisti, attrezzisti, truccatori, magazzinieri, tutti in balia dei capricci del tempo e degli imprevisti. Un esercito che ruota intorno ai 3.500 metri quadrati del palco. Un esercito da organizzare come una grande caserma. Costumi da lavare un giorno sì e uno no, farsetti e armature da allacciare, visi da truccare, capelli da pettinare, cavalli, come il veterano Gastone, da addestrare, le infrastrutture da realizzare negli spazi di via Gelmetto, la messa in scena. Scenografa e responsabile della sartoria, Silvia Bonetti rifugge la luce del palcoscenico ma brilla fra migliaia di abiti sontuosi e variopinti ideati da premi Oscar come Emi Wada, Anna Anni, Zeffirelli e si muove sicura fra figuranti, ballerini, coro, artisti; per ognuno fino a cinque costumi a rappresentazione (sei o sette per edizione), ordinatamente stipati in preciso armadietto, in una determinata stanza. E poi calici, spade, fucili, enormi micioni egizi, colonne, torri, gioielli falsissimi... e chi più ne ha più ne metta, perché questo è un festival tutto da guardare, oltre che ascoltare. Finzione e verità, fascino e magia. Gli stessi che si respirano a Verona, eclettico fondale per una città operosa e riservata. Medievale, rinascimentale, barocca, piazza delle Erbe è un gigantesco teatrino di pietra e marmo, edifici come scenografie solitarie, simili alle isole sceniche che durante le rappresentazioni stazionano surreali in piazza Bra. Volumi apposti e accostati, facciate dipinte o dal candore abbagliante, statue di eroi, il leone di S. Marco e la fontana di Madonna Verona, effige romana con braccia e testa medievali. Castelvecchio, le mura di Gallieno, le arche scaligere, il ponte di pietra che inquadra la Veronetta oltre l’Adige, che si arrampica sul colle con i suoi cipressi aguzzi, la cavea del teatro romano e castel S. Pietro. Ogni angolo di Verona potrebbero fare da fondale alla Forza del destino, all’Ernani... O a Romeo e Giulietta, la cui celeberrima casa, catalizzatrice degli afflati amorosi dei giovani di tutto il mondo, è una teatrale finzione, così come il suo balcone, dal quale si affacciano ragazze innamorate. Tutta Verona in realtà sembra proiettata all’esterno, concepita per essere vissuta da fuori e le sue chiese esibiscono un richiamo artistico sulla facciata, leoni, tombe, come quella di Cangrande a S. Anna, anche se gli interni nascondono soffitti lignei maestosi come a S. Fermo o affreschi superbi come quelli di Pisanello in S. Anastasia, l’Assunta di Tiziano nel Duomo, la Madonna con Bambino del Mantegna a S. Zeno.
Verona, magica macchina teatrale, è mossa da un’anima musicale che vive nel Filodrammatico, salotto invernale del festival lirico, nel Teatro romano, nel teatro Ristori, e pulsa più forte nei giovani del Conservatorio. «Siamo ragazzi come tutti gli altri, ma soffriamo per la mancanza di considerazione» afferma Lucia, 20 anni, veronese, studentessa di violino come Gaetano, 24 anni di Mirandola «Il fatto di studiare musica non viene preso sul serio. Alla risposta che frequentiamo il Conservatorio ci dicono «Sì va bene, ma nella vita che volete fare?». «Vogliamo lavorare nelle grandi orchestre», ribadisce Rikard, 24 anni, da Stoccolma, studente Erasmus che si esercita con il suo violino nella sede distaccata di Palazzo Boggian. Qui si trova anche l’Opera Academy, il master post laurea che vanta studenti da tutto il mondo, docenti come Pierluigi Pizzi, Gianfranco De Bosio o Ario Corchi e fa sperare sul futuro della musica operistica. Anche se i teatri sono poco coraggiosi nell’investire sui giovani e non sfruttano il fondo statale Fus per nuovi compositori. Per fortuna «Il Festival è più vivo che mai, ci sono segnali di ripresa, da sei anni teniamo i prezzi fermi, mentre sono cresciuti i servizi per il pubblico e le agevolazioni per chi in estate resta in città. La lirica non morirà, racconta i sentimenti di sempre, parla di amore e di passioni» ribadisce il sovrintendente Girondini. Ieri come oggi, alla Scala come all’Arena. A Milano come a Verona. Là dove i ragazzi continuano a sognare la musica e a baciarsi sul lungofiume.