di Silvestro Serra | Fotografie di: Sergio Ramazzotti/ Parallelo Zero
Baku, la vivace capitale azera, si è scrollata di dosso gli anni grigi della dominazione sovietica e oggi punta decisamente a occidente. Viaggio alla scoperta di una città sorprendente dove, grazie ai soldi del petrolio che si pompa dal mar Caspio, si respira un'inaspettata aria di tolleranza e tanta voglia di cambiamento
«Che ci faccio qui?». E subito dopo: «ma che ci fa Napoli sul mar Caspio?». Le domande sorgono spontanee atterrando a Baku, capitale dell’Azerbaigian, mollemente sdraiata su un golfo del sud del mar Caspio, identico a quello partenopeo, e con un lungomare che ricorda via Caracciolo. Manca, è vero, il contorno del Vesuvio, ma in compenso si intravedono sullo sfondo le cime del Caucaso, che per Vasilij Tatišcˇev geografo dello zar Pietro il Grande divideva Europa e Asia. Ma allora dovremmo essere in Asia? Non sembra. La geografia a volte dovrebbe tenere conto dei sentimenti.
Ali e Nino è il romanzo nazionale dell’Azerbaigian. Ed è uno dei primi argomenti di cui ti parlano per farti capire dove sei finito. Un amore contrastato, versione orientale di Romeo e Giulietta, ambientato a Baku alla vigilia della prima guerra mondiale: tra barbe profumate e unghie tinte di henné, turbanti e rapimenti, harem e palazzi da Mille e una notte, due giovani innamorati, entrambi principi ma lei, Nino, cristiana, lui Ali, musulmano. «Il vostro comportamento decide se la nostra città appartiene all’Europa progressista o all’Asia ritardataria» si spiega già nella prima pagina. Cento anni dopo sono arrivato qui per visitare un Paese e una capitale di cui si parla come di una nuova destinazione da non perdere, fosse anche solo per cercare di capire se la questione Est-Ovest, Europa-Asia gli azeri, dal 1991 indipendenti dalla ex Urss, l’abbiano alla fine risolta.
La città, ripulita dai venti (Baku vuol dire città dei venti) è un affascinante guazzabuglio di casupole e palazzi staliniano-islamico-veneziani, viali alberati e curate aree pedonali, residui monumentali dell’occupazione sovietica in via di lifting, e capolavori firmati da archistar come Norman Foster e Zaha Hadid. Si contendono i vicoli del centro storico (patrimonio Unesco) e le grandi strade, scoppiettanti Lada russe e luccicanti Suv e mega berline da neo ricchi. Tra loro, famelici taxi identici ai cab di Londra ma di un ardito color prugna. Dappertutto minareti e moschee, ma ci sono una chiesa cattolica, dell’Immacolata Concezione, e due sinagoghe. Qualche donna velata spunta qui e lì tra frotte di ragazze truccate e in minigonna che amoreggiano con i fidanzati lungo il Bulvar, il viale-salotto di Baku affollato fino a tarda notte: con i suoi 19 chilometri è anche la passeggiata a mare più lunga del mondo, oltre che un parco nazionale. Nel tepore della notte si gioca a nard (una specie di backgammon) o a scacchi. Insomma un miscuglio di vecchio e nuovo che pende sul moderno. Ecco perché pur addentrandomi nel vecchio centro, nel Nessim Boilan, mercato alimentare dove indifferenti venditori tagliano la gola ai polli su richiesta della massaia, avverto prepotente l’aria del cambiamento, la voglia pacifica di novità e la curiosità diffusa di un popolo che ha fatto la sua scelta e ha dimenticato il russo, un tempo lingua obbligatoria. Magari è esagerata la definizione di «New York dell’Est», impropria quella di «Dubai del Caucaso», azzardata quella di «Nuova Londra» ma è certo che Baku punta sull’Occidente, guarda al futuro con occhi tolleranti e affida le sue fortune a gas e petrolio. Finché dura – almeno altri 90 anni – non vuole rompere il prezioso giocattolo che la sta facendo ridiventare il centro della produzione e distribuzione dell’energia per l’Europa.
Qui il petrolio è sacro e lo era già dalla metà dell’Ottocento. Nel 1905 dal Caspio si estraeva metà della produzione mondiale. Per questo qui sbarcarono i grandi petrolieri: le famiglie Nobel, Rockefeller, Rothschild, che costruirono palazzi fantasmagorici, archi e pinnacoli, torrette e fregi, insomma un trionfo del kitsch da nuovi ricchi e persino un teatro dell’Opera, voluto da un signore del petrolio per celebrare una soprano forse argentina (lo racconta il francese Olivier Rolin in un bel libro Baku, ultimi giorni), e per l’estate fastose dacie sulle spiagge di Mrd-kan dove la gioventù dorata passa le serate ascoltando jazz sui divani del Golden beach club. C’è un Neftçilr Prospekti, il corso dei petrolieri, un simil pozzo petrolifero illuminato a giorno come la torre Eiffel e trasformato in luminoso termometro, posto a metà del Bulvar. C’è persino un centro termale, Naftalan.
Insomma sembra di essere sul set di un kolossal hollywoodiano anni Venti. E non è un caso che gran parte del cinema sovietico fu girato qui. Una passeggiata a piedi tra questi simboli secolari della ricchezza diventa allora occasione per fare turismo in un museo a cielo aperto mai prevedibile (il mausoleo di Lenin è diventato il museo del Tappeto) ma anche una piacevole lezione di storia e di economia, di religione e di geografia godendosi una bella e sorprendente città cosmopolita.
Impressionante la visita al terminal petrolifero superprotetto di Sngçal, alla periferia sud. È qui che arrivano i prodotti pompati dai pozzi al largo del Caspio e da qui partono l’oleodotto e il gasdotto che arrivano in Europa. Il flusso, alimentato da numerose compagnie internazionali compresa la nostra Eni, è controllato da un curioso palazzo, ai piedi della antica città murata. Era la residenza di Mir-Babayev, celeberrimo cantante di mougham e poi barone del petrolio. Qui si trova il quartier generale della Socar, potentissima compagnia petrolifera di Stato. Come dire proprietà del presidente. Eh già, perché quella che sembra una libera e frizzante società secolarizzata dove la maggioranza sciita non ci pensa nemmeno a emulare i vicini iraniani, dove le ragazze si truccano e si vestono all’occidentale, dove nei bar e nei ristoranti si beve un vino viola molto forte o boccali di Xirdalan, la birra azera, è ancora governata da una sola famiglia. Quella dell’ex capo del partito comunista azero, Heydər lyev, poi diventato presidente e nel 2003 sostituito dal figlio Ilham. Un regime familiare molto occhiuto, ma amato dalla maggioranza degli azeri data la ricchezza relativamente diffusa. Un regime che non impedisce generale libertà di movimento e di impresa e tolleranza religiosa, eredità positiva dell’Urss.
Per respirare l’aria dell’antica città mi sono arrampicato sulla collina che porta alla moschea e al minareto di Mohammed, lungo l’acciottolato delle stradine e piazzette, tra botteghe di tappeti susani, provenienti dal vicino Uzbekistan, e gallerie di artisti come Ali Shamsi, specializzato in quadri dipinti a petrolio. Il cuore della città vecchia è Qız qalası, la Torre della Vergine, inespugnabile roccaforte costruita contro le incursione dei pirati russi. Dalla torre lo sguardo abbraccia tutta la baia e il Caspio di colore madreperlaceo per via del petrolio. Imprese coreane lo stanno ripulendo e costruiscono un ponte che attraverserà il golfo per alleggerire il traffico. Tutto intorno le mura della città vecchia racchiudono i palazzi degli Shirvanashah e gli antichi hammam divenuti case da te come la Old Garden aperta 24 ore su 24 dove si consuma sdraiati su tappeti e divani all’aperto.
Turisti italiani ne ho incontrati pochi, il Paese è considerato ancora caro: un manat vale quasi un euro. Pochi anche gli alberghi di buon livello, i ristoranti all’altezza del nostro gusto (a parte lo Zafferano, nel dehors del nuovo hotel Four Seasons, gestito dallo chef milanese Marco Bax). Sul comodo volo di ritorno (diretto) della Azerbaijan airlines ho avuto la risposta alla domanda iniziale. Napoli c’entra e come. Baku è gemellata proprio con la città partenopea.