di Giuseppe Marino | Fotografie di: Lorenzo Maccotta
Sicilia, provincia di Trapani. Nella Casbah di Mazara del Vallo sono tornati i «mori». Un’Andalusia al contrario, frutto dell’immigrazione magrebina (e non solo): sono venuti per lavorare sui pescherecci e con l’arrivo delle loro famiglie hanno salvato il centro storico dal degrado
Un’Andalusia allo specchio, terra di reconquista alla rovescia che ha fatto tornare i «mori», ma pacificamente, per restaurare insieme ai cattolici l’Alhambra. Benvenuti a Mazara del Vallo, antico capoluogo arabo e nuova patria del paradosso storico fatto realtà. Certo, non c’è una fortezza come a Granada e nulla è rimasto del castello sul mare, delle mura poderose, della Muschita Grande, la moschea sulle cui spoglie sorge la Cattedrale, e del minareto che era nell’attuale piazza della Repubblica, vicino alla statua del patrono. Anche la torre quadrata eretta su una collina dei dintorni non c’è più, ha lasciato il posto alla chiesetta di S. Maria delle Giummare, voluta dalla contessa Giuditta, figlia di Ruggero il normanno. Qui l’eredità araba s’è acconciata di barocco.
Il 16 giugno saranno trascorsi 1.186 anni dal giorno dello sbarco degli arabi a Mazar, la rocca fondata dai Fenici forse duemila anni prima. Era l’anno 827 e il villaggio sarebbe diventato testa di ponte per l’invasione della Sicilia e poi capoluogo del distretto occidentale, il più grande dell’isola. Fu il tempo di maggior splendore e ci sono voluti undici secoli perché la città se ne ricordasse, valorizzando l’unica eredità di quel tempo: la Casbah. È il tipico quartiere arabo, una scintilla dell’Alfama di Lisbona o dell’Albaicín di Granada: una labirintica trama di stretti vicoli e piccole corti, tessuta fitta per riparare gli abitanti dal sole, che qui è compagno instancabilmente presente, e proteggerli assottigliando l’onda d’urto di eventuali invasori. Dal 2009 il quartiere ha man mano smesso di essere il ghetto di ruderi abbandonato dai mazaresi e riservato agli immigrati approdati qui dalle coste nordafricane.
Per secoli le due sponde del Canale di Sicilia si sono parlate e scambiate uomini. Ma la Casbah non è più quella del Ritorno infelice dei tunisini fotografato nel 1976 dal sociologo mazarese Antonino Cusumano. Nell’ex capoluogo arabo gli immigrati hanno trovato una formula magica per convivere. Non è il paradiso terrestre del multiculturalismo, frizioni e differenze restano, ma è un fatto che vi si sentano parlare 25 lingue, dal cinese all’ucraino, soprattutto il tunisino. E però tutti capiscono almeno un po’ di siciliano. E lo masticano declinandolo secondo gli accenti del mondo, trasformandolo così in un passaporto valido in ogni vicolo, l’esperanto della Casbah.
Ci fosse un’autostrada sul mare, le coste del Paese maghrebino sarebbero raggiungibili con una gita di un’ora e mezza, da sempre questo è il luogo dove è più stretto il rapporto tra le due sponde. E, su 50mila abitanti, Mazara ne conta almeno 5mila di origine tunisina, alcuni di prima generazione, altri nati qui, come Mohamed Zitoun, un ragazzo di 23 anni che il sindaco ha nominato consigliere comunale consultivo, come rappresentante della comunità proveniente dal Paese dei datteri. E la collaborazione ha funzionato: l’amministrazione comunale in carica dal 2009 ha stretto un patto con gli abitanti della Casbah per farla rinascere. Un accordo tra gentiluomini, che ha visto Comune e residenti in arrivo da mezzo mondo collaborare per donare bellezza al quartiere. E per preservarla: «Ora» – racconta Adriana Casubolo, impiegata comunale innamorata della sua città – «se ci sono motivi di frizione è perché qualche famiglia tunisina viene a lamentarsi perché un mazarese ha gettato una carta per terra».
L’operazione “fenice” ha funzionato: gli edifici sono stati ristrutturati e il sindaco-artista Nicolò Cristaldi, ha contribuito con le proprie opere (sono quelle firmate Hajto) e non solo: ha chiamato a raccolta i colleghi ceramisti per trasformare vicoli e cortili con installazioni che ne narrano la storia e le tradizioni. Così ora le mura raccontano le memorie dei luoghi, come cantastorie di pietra, porta per porta.
Basta lasciarsi guidare dalla vista. Sgusciare tra le antiche pile di pietra (i lavatoi), infiltrarsi tra le immacolate mura colore della sabbia, assistere rispettosi agli antichi riti familiari, le mamme che richiamano i bambini, gli anziani che ripuliscono le soglie. Da piazza della Repubblica, cuore monumentale della città, un luogo dove anche la luce è barocca, ci si dirige lungo via Garibaldi in direzione della chiesa normanna di S. Nicolò Regale. È qui che inizia la Casbah, incastonata sui due assi di via Bagno e via di Porta Palermo.
«Frugando tra i vicoli, si scorgono maioliche colorate incastonate sulle mura e sul selciato, targhe di ceramica che raccontano la storia del posto. Se ne incontrano diverse, procedendo a zigzag, perdendosi nei vicoli. «Questi gradini conducono al paradiso», confida timida una delle targhe fuse nel muro: la Scala del serraglio, dove sedevano «li puvireddi», vecchi marinai non più in grado di andare per mare che attendevano il rientro delle barche e il dono di un po’ di pesce. E poiché non può esserci paradiso senza il suo antagonista, non poteva mancare il «Curtigghiu di lu ‘nfernu»; un’altra targa spiega perfino cos’è un curtigghiu: «un’area scummigghiata», scoperta come un cortile, ma resa infernale dalla rivalità tra le due famiglie che vi convivevano, la cui amicizia fu tramutata in odio da una mancata promessa di matrimonio. Le liti erano diventate così proverbiali che i mazaresi, per commentare una sfuriata davvero violenta, dicevano che era roba da «curtigghiu di lu ‘nfernu».
Ora è tornata la quiete, e ci si possono godere, magari nel silenzio della controra, le ceramiche, i colori di grandi anfore variopinte e i pannelli murali come quello che rievoca la storia del brigante buono dal fisico imponente, Sataliviti, così soprannominato per l’abilità nel dileguarsi tra i vigneti. Oppure la Vanedda de li corna, opera del sindaco, così chiamata perché i macellai vi accatastavano le corna degli animali e, in seguito, per suscitare doppi sensi legati al tradimento.
E poi il vicolo del Bambino, la via della Tolleranza, piazza Bagno, dove si andavano a fare i lavacri. Qui c’è la testimonianza di un ennesimo intreccio, quello col settore ebraico della città, la Giudecca. Presso il monastero di S. Michele Arcangelo un’incisione nel marmo ricorda che qui fino al 1492 sorgeva la sinagoga. Di lì in poi tocca a un altro senso prendere il comando: basta lasciarsi guidare dal naso. Alla fragranza della ricotta della cucina delle suore, abili pasticcere, tornando verso la Casbah si sostituisce l’aroma delle spezie, del cuscus che arriva dalle cucine ma anche da qualche ristorante tunisino.
Il giro della Casbah non può che finire cambiando ancora una volta ispirazione: basta lasciarsi guidare dall’udito. I lazzi degli «abbanniatura» che declamano le qualità e il prezzo del pesce al mercato della Marina, il porto alla foce del fiume, sul lungomazaro Ducezio, sono la canzone di Mazara. Ma è a bordo dei motopesca della grande flotta mazarese che bisognerebbe chiudere la visita della Casbah. È qui che dimostra tutta la sua efficacia il modello di convivenza mazarese, nello spazio ristretto della barca, «non un’isola vera e propria, ma una comunità isolata galleggiante», come l’ha dipinta lo scrittore palermitano Roberto Alajmo rievocando un episodio tragico ma significativo, l’affondamento di un peschereccio, il Gancitano: «Ne risultarono quattro vittime, distribuite per nazionalità: due italiani e due tunisini. Campionamento empirico, s’è detto. E involontario, e statisticamente inaffidabile finché si vuole. Ma lo stesso significativo. Se non altro da un punto di vista morale, perché dimostra quanto la morte per mare – una classica tragedia siciliana narrata da Verga in maniera definitiva – sia diventata pienamente interetnica. La morte per mare non fa differenze, si adegua ai tempi che corrono».
In fondo non è un caso che anche l’eccezionale statua greca del IV secolo a.C., diventata simbolo della città, sia stata restituita a Mazara dal mare grazie all’impresa di un motopesca, il Capitan Ciccio, nelle cui reti rimase impigliata. Prima di lasciare la città bisogna ricordarsi di renderle omaggio, visitandola nel museo che gli è stato dedicato. Qui ci si può togliere anche l’ultimo sfizio, quello di verificare se qualcosa dello spirito della città è riuscito a contagiare il visitatore.
Basta girare torno torno alla statua in senso antiorario: se avete preso Mazara per il verso giusto, capirete perché il mondo la chiama Satiro danzante.