di Peter McBride | Fotografie di: Peter McBride
Qui a Rishikesh, nel Nord dell’India, sulle rive del fiume sacro, ci vennero nel 1968 i Beatles. Da allora questa zona è stata attraversata da migliaia di hippy, turisti, pellegrini. In cerca di spiritualità o semplicemente per stare meglio fisicamente. Ecco il racconto della nostra esperienza
Alto sullo scorrere argenteo del Gange, nel mezzo a un ondeggiante ponte sospeso, mi rendo conto di quanto io sia fuori strada nella mia ricerca. Rivelatore è il ticchettio da metronomo di una motocicletta Royal Enfield fra le mie gambe. Ero arrivato nella remota città di Rishikesh, in India – una porta per l’Himalaya – con visioni di profondo silenzio e di concentrazione yoga. Eppure qualcosa, forse una vibrazione causata dal mio karma, mi ha attirato altrove.
Rishikesh è una specie di centro commerciale della spiritualità, a cavallo del Gange a nordest di Nuova Delhi. Per quanti sono in cerca della verità o solo di fughe avventurose – hippy, turisti spirituali, pellegrini di una qualche religione – il potere curativo del Gange è una forte calamita, che attrae centinaia di migliaia di persone ogni anno. Come conseguenza, Rishikesh e la vicina Haridwar sono hot spot pieni di ashram (luoghi di meditazione), scuole di yoga e ristoranti vegani. Nel 1968 i Beatles sono giunti in quest’angolo dell’India per studiare meditazione trascendentale e hanno scritto una quarantina di canzoni, molte delle quali sono finite nel White Album del 1968. Tuttavia, non c’ero venuto per scrivere musica, ma per risistemare la mia schiena sofferente.
Cresciuto in un ranch nel centro del Colorado, mi ero fatto i muscoli caricando balle di fieno e praticando a livello competitivo sport quali hockey su ghiaccio, sci e mountain bike. Ma la mia idea di esercizi di stiramento aveva contemplato solo qualche piegamento per toccarmi la punta dei piedi. Ok, forse senza arrivarci del tutto. Certo avevo seguito un po’ di power yoga e di vinyasa flow (yoga dolce e lento), e anche qualche lezione di yoga metodo Bikram. Il panorama americano nel campo garantisce un buon allenamento ma, francamente, è un po’ deconcentrante. Tutti i miei anni di sport, appesantiti ora dall’invecchiamento, mi avevano causato un persistente dolore alla parte più bassa della spina dorsale. Dopo aver sopportato le manipolazioni del chiropratico, le punzecchiature dell’agopunturista e i dolorosi massaggi Rolf, una radiografia aveva mostrato una spina dorsale contorta con una delle vertebre sporgente. Una condizione abbastanza comune, secondo il mio medico. Ma se non avessi rinforzato la parte con esercizi di stiramento avrebbero dovuto “saldarmi” chirurgicamente la spina dorsale, con l’ausilio di sbarre di ferro. Lo yoga, mi fu detto, avrebbe forse aiutato. E allora via verso Rishikesh, capitale mondiale dello yoga. Avrei messo da parte le mie abitudini a divorare carne e trangugiare caffè e alcolici per abbracciare lo stile di vita ashram proprio dove aveva avuto origine. Pronto a storcere corpo e mente, mi sono messo in viaggio per trovare il mio om interiore. Che cosa avevo da perdere? Tanto per cominciare, un intervento chirurgico alla schiena.
Il fastidioso brontolio della moto, però, non faceva parte della risintonizzazione yoga. Tuttavia, mi ero detto, il canto da sirena di una classica motocicletta inglese (fabbricata in India) forse non mi avrebbe strappato del tutto dalla mia ricerca.
Dopo aver attraversato il ponte mi infilo in un vicolo ed entro nel cortile dell’ashram Parmarth Niketan. La mia scelta è caduta su questo centro perché è meno rigoroso di altri, gli ospiti possono andare e venire. Basta essere di ritorno prima di un’ora stabilita. Alle 6.50 del mattino del giorno successivo sono seduto in una stanza semplice, dalle cui pareti Pujya Swamiji, nelle foto in bianco e nero, sorride sul nostro gruppo di studenti. Eletto nel 1991 hindu dell’anno dalla rivista Induismo oggi, Pujya Swamiji, che ha lasciato la sua casa all’età di otto anni per studiare sull’Himalaya, è il capo spirituale di Parmarth.
Prima di arrivare qui, sapevo qualcosa sul divario culturale fra lo yoga indiano e quello americano, che qualcuno afferma sia stato spinto più verso la ginnastica dall’infatuazione tipicamente yankee per il fitness. Altri sostengono che questa dicotomia faccia parte dell’evoluzione in corso nella pratica yoga. Quando chiedo di questo divario culturale a Ramya, una dei due insegnanti americani di yoga dell’ashram, sorride, «C’è un modo di dire: “lo yoga è arrivato per cambiare l’America, ma l’America ha cambiato lo yoga”». Medito sull’osservazione mentre affronto il mio primo test di yoga lontano dal tappetino: il pranzo. Con poca scelta, il mio appetito si sottomette alla dieta vedica di cibi alcalini: lenticchie, riso, verdure cotte, spezie. L’astinenza dal caffè, all’inizio, è crudele. Un altro ostacolo è dover mangiare a gambe incrociate su un pavimento di marmo. Le mie anche lo detestano. Piccoli tavoli, alti forse 25 centimetri, sono un lusso riservato soprattutto agli occidentali. Danno poco comfort. Calma. Respira.
Nel corso dei giorni successivi scivolo nell’abitudine di svegliarmi alle cinque del mattino al suono dei canti di meditazione mantra dell’ashram, prendere parte alle lezioni di yoga al freddo, prima di colazione, e consumare i miei pasti in silenzio. Incomincio anche ad allontanarmi dall’ashram per sortite esplorative a Rishikesh e nella vicina Haridwar. È proprio dietro l’ashram che scopro la mia arma segreta di meditazione: la motocicletta Royal Enfield. Tramite Facebook mi ero messo in contatto con il tipo da cui proviene, un uomo di nome Madhav, che si occupa del lavoro di logistica per i grossi gruppi che visitano la zona. Lo incontro, sorridente accanto alla mia moto 500 cc di design inglese e fabbricazione indiana, uno scintillante modello classico. Mi offro di pagare il noleggio in anticipo. Madhav fa un impercettibile cenno del capo e risponde: «Nessun problema, Pete, puoi pagare dopo». È allora che mi rendo conto che Madhav è uno di quei personaggi locali che non vorresti mai perdere di vista. Così, dopo una settimana all’ashram, parto lungo il Gange, in moto.
«A sinistra, stai a sinistra» diventa subito il mio mantra mentre mi destreggio fra autobus dipinti a strisce di colori vivaci e risciò a motore stracarichi che sputano nuvole di fumo nero.
La strada serpeggia verso nord, in alcuni tratti seguendo il corso del Gange; in altri, il gelido fiume verde scorre decine di metri più in basso, spumeggiando sotto i dirupi. Sorrido, costantemente.
Respira, Rilassati. E stai a sinistra.
Mentre il sole si allarga in una palla arancione sopra l’orizzonte arrivo alla grotta di Vashista, ritenuta la più antica grotta per la meditazione in questa regione. Alcuni la chiamano la culla del pensiero consapevole. «C’è nessuno?» domando esitante mentre entro nell’oscurità totale. Mossa da principiante. Chiaramente non il modo migliore per fare il proprio ingresso in un’antica grotta per la meditazione. Nessuna risposta. Volevo passare un po’ di tempo nella grotta. Avanzando nell’aria fresca e dolce, attraverso il pavimento coperto da tela di sacco e mi fermo vicino alla luce di una candela consumata, dove siedo a gambe incrociate e cerco di rilassarmi. Con gli occhi chiusi, mi concentro sul mio respiro. Subito la mia mente comincia a vagare. Perché sono qui? Rilassati. Respira. Torno a concentrarmi lentamente sui miei polmoni. Il ritmo mentale si allinea con il respiro. Apro gli occhi. Improvvisamente vedo l’intera grotta. Sono solo, alla fine di un lungo passaggio a galleria. Offerte di devozione sono posate vicino alle candele, su un altare di pietra. L’aria ora sembra perfino più dolce, più fresca. Quando sono di nuovo fuori guardo l’ora. Il mio orologio interno mi dice che ho meditato forse per 10 minuti al massimo. Il mio orologio da polso indica che ne sono trascorsi più di 50. Dove sono stato?
Mi rimetto in viaggio per il ritorno, meditando lungo la strada. Stai a sinistra, stai a sinistra, stai a sinistra. Guidando quasi per istinto, in uno stato che non posso fare a meno di chiamare «lo zen del motociclista», continuo a meditare, riuscendo a mantenere la concentrazione su quanto mi circonda e sulla mia esistenza in questa precisa ora e tempo. Rientro giusto all’inizio dell’aarti (rituale religioso hindu) della sera. Pujya Swamiji, il capo spirituale dell’ashram Parmarth, mi si avvicina. «Sei tornato, Pete». Un po’ sorpreso mormoro «Sì. Sono contento di rivederti, Swamiji». Con i suoi lunghi, fluenti capelli e barba sale-pepe mi scivola vicino, la veste fluttuante color zafferano. «Bentornato a casa», aggiunge. Più tardi la sera stessa ritrovo Madhav. Sta dando una mano a organizzare un gruppo internazionale. Mentre aspetto per scambiare due chiacchiere è sommerso di domande. Lui risponde a tutti con gentilezza, amichevolmente, con il calmo atteggiamento yoga del «si può fare». Mentre guardo Madhav darsi da fare, mi viene in mente che quest’uomo tranquillo, sempre sorridente che mi sta di fronte mi ha aiutato a scoprire il mio om interiore. Certo, molti dei principi che mi sono stati impartiti – l’esercizio, il respiro, il mangiare più lentamente e cibi più sani (perfino meno caffè), rilassarsi – sono semplici. E, certo, rimpiazzare lo stress da troppo lavoro davanti al computer con frizzanti nuotate nelle acque di un fiume sacro, seguite da sbalzi temporali nelle caverne e corse in motocicletta fra le colline himalayane darebbe alla maggior parte delle persone la pace mentale agognata. Tuttavia Madhav, capisco ora, è l’esempio vivente di quella mente consapevole che io aspiravo a diventare. Nessuna cosa, non importa quanto grande e incalzante, lo turba. Mi ha insegnato, quasi quotidianamente, non tanto come camminare lungo il percorso di uno yogi, quanto come capirlo e, la cosa più importante, a rendermi conto che la mia mente ha bisogno di esercizi di stiramento almeno quanto la mia fastidiosa schiena. Dopo due settimane di yoga quasi quotidiano riesco ora a toccare la punta dei miei piedi e perfino a sedere a gambe incrociate per tutto il pasto. La schiena? Il dolore persistente non è del tutto svanito. Ma si è ridotto. La mia spina dorsale ha davvero incominciato finalmente a guarire? Non lo so, ma né io né il mio om interiore se ne preoccupano.