Il viaggiatore: Sorpresa a Palermo

Mentre giravo per la città senza meta, guida rossa Touring in mano, mi sono imbattuta, a Palazzo Branciforte, in un museo nuovo di zecca, carico di storie nel luogo dove c'era il Monte di Pietà di S. Rosalia

Avendo trascorso la maggior parte della mia adolescenza tra l’appartamento di città e la casa di campagna, ho imparato a fare turismo “in casa” girando per Palermo, dove sono nata. Ogni volta che vi ritorno mi ritaglio il tempo per rivisitare luoghi cari, conoscerne di nuovi o, semplicemente, tampasiare, cioè gironzolare e scoprire le inesauribili meraviglie della mia città. In queste spedizioni la mia unica, inseparabile compagna è la guida del Touring, ma a volte si unisce a me un amico, gran conoscitore di Palermo, che parla poco e bene.

Oggigiorno le banche ispirano spesso sfiducia e diffidenza: è convinzione generale – nei clienti come nella stampa – che pensino soltanto a lucrare e che non realizzino nulla per la comunità. Esistono tuttora mirabili eccezioni. La Fondazione Sicilia (appartenente al Banco di Sicilia), ha comprato sette anni fa palazzo Branciforte – antica dimora del principe di Butera in via Bara, all’Olivella, lasciata a fine Settecento per un moderno palazzo sulla Marina, vendendola al Comune di Palermo – e la primavera scorsa lo ha trasformato in propria sede e museo particolarissimo.

Per due secoli, palazzo Branciforte ospitò il Monte di Pietà di S. Rosalia o “dei panni”: i poveri andavano a depositarvi in cambio di una manciata di monete il niente che possedevano – materassi, lenzuola, coperte, tovaglie, abiti, scarpe, cappelli – e poi tornavano a riscattarlo. L’operazione veniva ripetuta più e più volte. I palermitani sono spendaccioni, ossessionati dalla bella figura, e dunque spesso indebitati, quale che sia la loro classe sociale: anche i nobili dunque ricorrevano ai pegni, ma avevano un “loro” Monte di Pietà, costruito all’uopo non lontano dal palazzo Reale, sontuoso e ben frequentato, dove impegnavano gioielli e masserizie.
Al Monte di pietà dei panni, i beni impegnati venivano riposti in stanzoni altissimi, un tempo saloni del piano nobile, lungo le cui pareti sono allineate scaffalature in legno grezzo, spesso riciclato, corredate di scalette interne, palchetti, ballatoi, tavoloni, carrucole, bilance e montacarichi: i commessi vi si arrampicavano e di qui il nome “d’ingiuria” di omini-scimmia – con o senza l’aiuto di corde.

L’architetto Gae Aulenti ha curato il restauro del palazzo mantenendo tale e quale il Monte dei panni, commovente memoria storica di Palermo. Altrove il suo intervento è stato deciso e ardito, talvolta pesante. In ogni caso, la Fondazione Sicilia ha dato a Palermo un museo innovativo, funzionale e colto, che include una biblioteca, un ristorante con scuola di cucina, un auditorium tecnologicamente all’avanguardia, una sezione di numismatica, una di sculture bronzee ottocentesche e una di ceramiche siciliane; la grande Cavallerizza, inoltre, ospita splendidi reperti greci acquisiti grazie alla lungimiranza del Banco di Sicilia, che in passato finanziò gli scavi di Selinunte a fronte di un risarcimento «in natura».
Due critiche soltanto: la moderna biblioteca, che ospita 50mila volumi, ha un soffitto dipinto da un discendente degli antichi proprietari, non gradevole e incongruo; le visite devono essere guidate da deliziose ragazze che ripetono quanto scritto per loro con orgoglio, ma sono riluttanti a permetterci di soffermarci oltre quanto previsto dal copione. Peccato.

La struttura stessa del palazzo e le sue magnifiche collezioni “chiamano” un visitatore indipendente e curioso: richiedono infatti un rapporto a tu per tu con gli oggetti esposti, e ispirano nel contempo un confronto con il passato. Due condizioni che richiedono solitudine.

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