di Pasquale Chessa | Fotografie di: Alessandro Addis/spexi
Un giornalista-scrittore ha ricostruito lo sconosciuto passaggio di Antoine de Saint-Exupéry nella regione di Alghero durante la seconda guerra mondiale, nel 1944, quando era aviatore francese schierato con gli alleati.
E ha raccolto gustosi episodi nei luoghi frequentati (e tuttora visitabili) dal nobile pilota-scrittore durante la sosta nella base sarda, prima del suo “ultimo volo”
Eravamo in mezzo al nulla», ricordano i piloti del gruppo II/33, tutti francesi ma inquadrati nei ranghi dell’aviazione americana per combattere i tedeschi in nome della Francia libera. Sono appena stati trasferiti da Algeri. E colpisce scoprire come in quel 1944 la Nurra fra Alghero e Sassari, dove adesso c’è l’aeroporto di Fertilia, apparisse più spopolata del deserto nordafricano. Bisogna rifare la pista: lo sbarco in Provenza è imminente e le foto dei ricognitori sono indispensabili per la riuscita dei piani di invasione. Per questo sono stati trasferiti nel Nordovest della Sardegna. Li comanda il francese René Gavoille, il protagonista di Pilote de guerre, del 1942, il romanzo che fa di Antoine Saint-Exupéry il campione degli antinazisti. È per questo che lo scrittore pilota ha fatto di tutto per tornare a volare con la sua squadriglia, a dispetto dei suoi 42 anni compiuti e della regola che impedisce a un pilota sopra i 30 anni di salire su un Lightning. E invece il 12 maggio del ’44 la festa è grande appena Saint-Exupéry scende dal B26 sulla pista di Alghero, accompagnato da un fotografo di Life, John Phillips. Fra loro c’è un patto. «Voglio scrivere, e darò a lei il diritto di pubblicare tutto a condizione di tornare a volare con la mia squadriglia». Il potere di un fotografo di guerra inviato di Life esercitava un fascino irresistibile per i generali americani. La speciale concessione prevedeva solo 5 voli di ricognizione sulla Provenza dove Saint-Exupéry era nato. Invece, la missione da cui il P38F5B n°223 non sarebbe più tornato, il 31 luglio del 1944, era già la nona.
Ero condirettore di Epoca quando incontravo John Phillips alla fine degli anni Ottanta durante i mesi che passava in Italia insieme alla moglie italiana, Annamaria Borletti. Cene sobrie, poche persone, molte storie. Dagli archivi della sua memoria i ricordi zampillavano uno dopo l’altro, un po’ Recherche e un po’ Comédie. Perché Phillips non solo eccelleva nel racconto per immagini ma sapeva usare la parola scritta, e raccontava e raccontava, di Josip Tito, di Coco Chanel con Cecil Beaton… Storie della storia. Ecco: deve essere stata proprio la rispettiva predisposizione a raccontare storie, che fra il principio di febbraio e la fine di luglio del 1944 ha intrecciato per sempre la vita di John Phillips con la morte di Saint-Exupéry ad Alghero. Sono diventate un topos narrativo della sua leggenda biografica le smorfie di Saint-Exupéry costretto a indossare la tuta per l’altitudine, a infilare le scarpe foderate, prima di scivolare nel cockpit del P38.
Ad Alghero si erano acquartierati in un’insenatura a 12 chilometri dall’aeroporto, là dove finisce la spiaggia su cui si adagia il golfo chiuso fra capo Caccia e punta Giglio, poco distanti dalla torre catalana e dal faro che, come un antico menhir, genio del luogo, è monito per i naviganti.
Mi sono trovato anch’io fra le stoppie nell’entroterra di porto Conte per cercare di ricostruire la topografia tramandata dalle foto di Phillips, come Bruno, l’istruttore di volo che accompagna Daniele Del Giudice in Staccando l’ombra da terra, il romanzo sull’arte di volare che ha segnato una breve stagione della letteratura italiana di fine secolo.
C’è una fotografia, scattata presso l’insenatura fra la torre di porto Conte e punta Giglio, in cui Saint-Exupéry, in divisa su una barca portata a remi da due marinai a torso nudo, si arrabatta dondolando fra le onde con una canna da pesca. C’è un’altra fotografia in cui si vede il Lightning che cabra su punta Giglio sullo sfondo imponente di capo Caccia.
John mi confessò che non si erano accorti di essere ad Alghero, cioè di non aver capito che lì c’era una storia di secoli ancora viva. Non c’era tempo fra missioni, fotografie, partite a scacchi e sedute di scrittura coatta per costringerlo a mantenere la promessa fatta a Life. Eppure qualcosa del genius loci di Alghero, Saint-Exupéry deve averla percepita se, in uno dei suoi andirivieni con l’Africa, un giorno telegrafa alla signora che aveva ospitato ad Algeri lo scrittore André Gide – colui che aveva spinto Antoine a farsi romanziere –, chiedendo con la perentorietà dei telegrammi: «Prepari la maionese e il court bouillon. Arrivo dalla Sardegna con sette aragoste e sarò da lei fra un’ora».
Sono nato ad Alghero. Ma così come Saint-Exupéry aveva ignorato la città così anche la città, pensavo, aveva ignorato lui. Mi sbagliavo. Mia sorella ricorda un’insegnante che leggeva in classe Il Piccolo principe e quando parlava di Saint-Exupéry non riusciva a fermare le lacrime. Si diceva che, giovanissima interprete per i piloti, fosse rimasta impigliata anche lei nelle storie di Saint-Exupéry. Anche Rosa Carboni Montalto era una professoressa. Una donna volitiva. Decisa. Autoritaria. Non le ho mai chiesto dei suoi incontri con quella specie di marziano, quel pilota alto un metro e novanta, con la bustina francese ma con la divisa dell’esercito americano. C’è una foto di John Phillips in cui Rosa appare in primo piano, radiosa accanto ad Antoine: dalle sue gonne fa capolino il figlio, mentre mangia il méchoui, l’agnello cotto al fuoco lento, così come sanno fare i nomadi algerini.
È il 28 maggio. Saint-Exupéry ha deciso di offrire un sontuoso méchoui per festeggiare Phillips che si prepara a lasciare Alghero. Il servizio fotografico è strepitoso. E tutto sarebbe perfetto se non mancasse il testo che lo scrittore ha promesso a Life. Una speciale euforia cameratesca si è impadronita della base. I pastori sardi si mettono al lavoro fin dall’alba per preparare gli spiedi di lentischio per arrostire i 10 grossi agnelli offerti dallo scrittore. Del vino si è invece occupato il fotografo facendolo venire dall’Algeria con un singolare stratagemma: 600 litri stivati nel serbatoio di emergenza di un Lightning!
Ha raccontato Rosa: «Era la casa del guardiano del faro di Porto Conte che ospitava Saint-Exupéry. Io invece abitavo al porto, in via Garibaldi con mio marito Dante. Ad Antoine piaceva parlare con me in francese. Non vi dico i pettegolezzi… Mio marito nel 1944 era responsabile del Genio aeronautico per la Sardegna del Nord: l’aeroporto l’aveva progettato proprio lui. Lo invitammo a cena. Mi regalò una copia del Piccolo principe in francese. Mi parlava di tutti i suoi libri senza smettere mai. Così ho certamente capito l’importanza di quello scrittore pilota, e non ho mai prestato a nessuno la copia del suo libro». Con un pizzico di candida civetteria, una cugina di Rosa ricorda ancora gli incontri con Saint-Exupéry ad Alghero, quando una delle sue amoureses si faceva regalare la stoffa dei paracadute utilizzati per confezionare sontuose «sottovesti, mutande e reggipetti».
Il pessimismo di Saint-Exupéry, il giorno in cui partì per l’ultima missione da Bastia, dove il II/33 si era appena trasferito da Alghero, nonostante fosse una giornata di sole, sprofondava in quella zona buia della vita che ci sembra il confine con la morte. Che sia morto per errore, che abbia scelto il suicidio consapevole, o che invece sia stato abbattuto da caccia tedeschi, non cambia il senso ultimo della sua storia. La notte dopo il sontuoso méchoui di Alghero aveva mantenuto la promessa e consegnato a Phillips il suo ultimo articolo Lettre à un Américain. Così come il servizio fotografico, Phillips decise, per il dolore, di non pubblicarlo.