di Giulia Valsecchi | Fotografie di: /
La metropoli turca raccontata da un'esperta che sceglie l'udito come senso guida per scoprire i segreti e le abitudine della città ponte tra est e ovest. Tra il richiamo delle tradizioni più forti e una grande voglia di modernità.
Il rumore di istanbul è una questione di sensi. L’allerta che il caos dell’uscita dall’aeroporto Atatürk miscela con l’occhio indagatore è un incrocio caldo, è il desiderio o il rifiuto di immergersi in una natura di agglomerati, gabbiani e minareti. Un incastro di secoli tra la sponda occidentale e quella orientale. Le prime orme sono dei randagi neri di smog che sonnecchiano al sole nelle piazze, ma ugualmente forti, quasi invadenti, sono le trame dell’olfatto, tra i cunicoli variegati dei bazar, con l’invito a sedersi e sorseggiare un bicchierino di tè rigorosamente già zuccherato.
L’ospitalità fa degli abitanti di Istanbul gli osti più guardinghi solo a un primo impatto diffidente. Non va mostrata l’oscillazione timorosa tra Est e Ovest, piuttosto va incoraggiato l’istinto che punta al quartiere europeo di Beyoglu, l’antica Pera, ma senza tacere il richiamo della sponda opposta, quella delle nuove gallerie d’arte, dei ritrovi giovanili e della Sakirin Camii, la moschea femminile.
Da uno dei cuscini colorati che arredano i locali sui gradoni del rione vintage, il cuore occidentale dell’ex Costantinopoli, con i suoi umori alla Montmartre, appare come un formicaio. Se ne percorrono gli estremi dalla stazione superiore di Tünel a piazza Taksim, tra neon e Starbucks Café accanto al folklore di donne dalle gonne larghe sedute per ore in vetrina a impastare, mentre un cane schiva i passanti mordendo un santino. In quella folla di sensi concentrati si respira una corsa veloce e opposta alla lentezza dei carretti che vendono simit, le ciambelle al sesamo. La vista più alta del formicaio è solo dalla torre di Galata, che guida fino alla moschea di Solimano e al limite del Corno d’Oro, tra gru, cartelloni e spilli di moschee minori. Ogni tetto vigila sulle diagonali del Bosforo rigato dalle navi e dal Galata Köprüsü, il ponte dei pescatori.
Istanbul d’occidente è anche il rito dei barbieri nei vicoli accanto a botteghe di materiale elettrico e padroni a braccia conserte o chini a grattare la pancia dei soriani. Gli stessi felini pigri che, indifferenti agli scatti fotografici, si accucciano al calore dei fari nella Basilica di S. Sofia. Ed è proprio a Sultanahmet che la città continua a ripagare il viaggiatore con ciò che resta della Yerebatan Saray, la cisterna sommersa: rintocchi di gocciolii dal soffitto, luci calde e rinforzi in cemento per arginare la piattaforma dell’acqua. Gettarsi una moneta alle spalle significa onorare forse un rito globale prima di spingersi fino a due teste di Medusa rovesciate e ignare cariatidi, abitanti di foreste sommerse.
All’uscita, i richiami alla preghiera nella Moschea Blu superano la rete di paraboliche tra le abitazioni fino a sfiorare il Topkapı, residenza suprema del sultano. Poco fuori, da Set Üstü, si perpetua l’altro rito del tè nero cay nel mezzo del Gülhane Parkı, tra costruzioni vittoriane in legno e giardini di tulipani. Resta escluso dai soliti itinerari un giro alla moschea Sokollu Mehmed Pas¸a: dentro una corte riservata, le maioliche di Iznik sono un inno agli azzurri. Un custode strofina i banchi e leva gli elementi di disturbo, ma in un angolo potrebbe sfuggirgli un rosario abbandonato. I mercati attorno, le baruffe coi tassisti senza tassametro riportano alla Nuova Moschea, alle partenze dei traghetti da e per i rioni orientali di Harem e Kadıköy a Üsküdar, quella riva anatolica dove la vista a perdita d’occhio dal parco Büyük Çamlıca fa il paio con una schiera di moschee di fronte al mare. Il prologo alla partenza potrebbe essere un pranzo da Pandeli, a Eminönü, all’ingresso del Bazar delle spezie. I tavoli alla finestra danno sui gabbiani che si strappano fette di carne, ma bastano del merluzzo en papillote e mattonelle di pan di spagna e mandorle per allungare la lista dei piaceri inaugurata dai lokum al pistacchio e melagrana di Hafiz Mustafa.
In fondo, la città non scioglie il dilemma fra est e ovest: la sua moneta è una bellezza agganciata alle crepe, alle dicerie femminili negli hammam, a Sulukule, il quartiere zingaro epurato, alle Isole dei Principi a soli venti minuti di mare, al Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, dove gli oggetti raccontano un romanzo, alle buche mentre si cammina, ai bovindi délabré, ai lucidascarpe e ai fiati salmastri del Bosforo che, più di tutto, ne fa un’inesauribile questione di sensi…