Benvenuti al Sud (Africa)

Claudio MorelliClaudio MorelliClaudio MorelliClaudio MorelliClaudio MorelliClaudio MorelliClaudio MorelliClaudio MorelliClaudio MorelliClaudio Morelli

Immersa in una cornice naturale spettacolare, Città del Capo è il centro del design e del ritmo slow. Johannesburg, nel Nord del Paese, è la capitale economica, dei contrasti e delle innovazioni. Tra le due metropoli, l’eterna rivalità. Ma insieme restituiscono ai visitatori l’immagine sfaccettata della stessa nazione. Proiettata nel futuro.

A 18 anni dalle prime elezioni democratiche il Sudafrica è diventato maggiorenne e, da buon adolescente, è energico, ricco di contrasti e, proprio per questo, ha molto da dire. A cominciare da Johannesburg, «Jo’burg» per gli amici, ottimo diversivo alla solitudine della savana. Le rivolte di Soweto e la violenza degli anni Novanta sono solo brutti ricordi; la città ha cambiato volto e la parola d’ordine è vibe: vibrazione, fermento, tendenza.
Dal Carlton Centre, il grattacielo più alto, Jo’burg appare circondata da colline d’oro, e non per dire: sono cumuli di terra di riporto delle miniere, la ragione di esistere della metropoli, che la fanno sembrare un orto di re Mida. Il vibe, però, viene dai vecchi distretti industriali. A farci da Cicerone è Bheki, jeans a vita bassa e camminata sciolta, videomaker uscito di fresco da una delle migliori università, esempio della nuova borghesia di colore che sta cambiando il Paese.
Siamo a Maboneng, a pochi passi dal Mandela Bridge. «Il rilancio di questa zona è iniziato nel 2009 e Maboneng è diventata un punto di riferimento per gli artisti emergenti. William Kentridge (artista noto per i video animati, ndr) è stato il primo a trasferirsi qui, gli altri l’hanno seguito a ruota». Lo studio di Kentridge dà su un cortile che ospita gallerie d’arte e un caffè all’aperto dall’aria internazionale. L’ufficio di Bheki è ricavato in un container; sul tetto, una scultura che lo stesso Kentridge ha donato al suo quartiere. Molti artisti che hanno preso dimora in questi loft sono stati chiamati a decorare il 12 Decades Hotel, dove ogni stanza è un’opera d’arte ispirata alle tappe della storia sudafricana. Per strada i bar affollati dal primo mattino, profumano di caffè etiope, e la scritta Stay up riempie un muro, ricordando a tutti di non mollare. Merito di Area 3, galleria che ha coordinato un progetto di street art per colorare il centro urbano.

 

Questa è jo’burg: una sorpresa continua dove sembra ci sia solo cemento. Come succede al Neighbourgoods Market, un edificio che diresti un parcheggio e che, nei finesettimana, si riempie di stand di cucina, dalla paella ai samosa, a ostriche e champagne. Il vibe continua anche nelle zone residenziali della periferia, tutte colline e alberi di jacaranda, dove diventa più composto, più europeo. L’arteria di Parkhurst, 4th Avenue, ricorda il quartiere di Notting Hill a Londra, costellata com’è di negozi di design e ristoranti a chilometro zero.
La rinascita della città è iniziata tra queste ville recintate, molto chic e decisamente «bianche» mentre, per vedere la Jo’burg nera, Soweto è tappa obbligata. Affitto una bicicletta, pensando di gironzolare attorno alla famosa Vilakazi Street, dove vissero Nelson Mandela e Desmond Tutu, e poco più. Grave errore: Soweto è una vera città, tutta saliscendi, il senso di marcia è a sinistra, quindi alle rotonde non sai cosa fare. Compare una grand mama a indicarci la via: peserà un quintale, è vestita di celeste e cammina piano. Sta andando alla Messa della domenica, inevitabile seguirla. La donna si unisce ai fedeli di una chiesa apostolica che cantano e ballano a ritmo vorticoso, mentre un sacerdote brandisce un bastone con gli occhi spiritati. Ma basta svoltare l’angolo e l’anima tribale di Soweto cede il passo a una struttura geometrica e colorata, il Soweto Theatre, inaugurato a maggio 2012: tre sale nuove di zecca, opere di artisti locali nel foyer e, all’esterno, una squadra di street artist impegnati in un murale. I graffiti sono la nuova pelle anche delle Orlando Towers, ciminiere di una fabbrica di carbone diventate emblema della nuova Soweto, nonché punto di lancio per il bungee jumping e sede di un bar dove si radunano giovani di colore terribilmente alla moda. Intorno, si alternano filari di villette recintate come le ricche case di Parkhurst, e baraccopoli di lamiera attraversate da eserciti di bambini a piedi nudi.
Johannesburg contiene tutto e il suo contrario: bianchi e neri, miseria e nobiltà, riti ancestrali e happy hour. Una cosa mette tutti d’accordo: la rivalità con Città del Capo. Perché a Johannesburg «si lavora sodo», mentre a Città del Capo la gente pensa solo «a godersi la vita e a spendere i nostri soldi». Ho l’impressione di averla già sentita. Naturalmente, a Città del Capo ricambiano la cortesia: «La gente di Jo’burg è nevrotica, lavora troppo, non sa vivere». A Città del Capo è tutta un’altra musica: qui puoi tirare il fiato, mollare gli ormeggi e goderti il panorama. Che in effetti quaggiù, nella punta meridionale dell’Africa, è impagabile.

La baia, il water front, la table mountain che troneggia sulla città hanno pochi rivali al mondo. La lunga spiaggia di Camps Bay sembra fatta per l’industria delle cartoline, come le balconate in legno dei palazzi nelle vie centrali, le vetrine e gli interni di negozi, gallerie, stilosi art-café. Non è un caso se, nel 2014, Città del Capo sarà la capitale mondiale del design: qui tutto parla di stile. E sono soprattutto le donne, giovani imprenditrici d’origine europea, ad aver colto lo spirito del tempo. «Ho iniziato con un blog nel 2005, proponendo i primi tessuti sul web», spiega Heather, creatrice di Skinnylaminx.com: con i suoi stampati per la casa è arrivata negli Usa e a Milano. Heather ha un solo micro-negozio nella centralissima Bree Street. «In dieci riusciamo a fare tutto». Tutte donne? «Tutte».
Stessa struttura adottata da Missibaba, al secolo Chloe: il suo talento sono borse di lusso dai disegni geometrici, che richiamano i tessuti africani e prendono forma in un laboratorio di Woodstock, uno dei quartieri con più vibe della città e forse del pianeta: all’interno di un vecchio magazzino, ecco i loft delle artigiane 2.0. Lo spazio di Missibaba è ingombro di pelli colorate e di macchine da cucire, dietro cui lavorano sarte colored, discendenti dagli schiavi malesi portati qui nel 1600. Alla porta accanto, anche Dina ha instaurato con le township un vero sodalizio creativo. «Facevo la designer d’interni ma con la crisi non lavoravo più. Ho iniziato a confezionare oggetti all’uncinetto lanciandoli in rete ma senza le mie collaboratrici non sarei riuscita a crescere». Ora i suoi lampadari e tappeti sono in tutto il mondo.
Se Maboneng è il simbolo della nuova Johannesburg, Woodstock lo è di Città del Capo. Lungo Albert Road si passa dallo studio di Chloe e Dina al Woodstock Foundry, con negozi di design dove tutto è ricercato, originale e fatto a mano. In una sinagoga sconsacrata, si scopre una galleria d’arte contemporanea tra le più interessanti in città, Whatiftheworld Gallery, e si approda infine all’Old Biscuit Mill, mulino riadattato a ospitare caffetterie e ristoranti dove senza dubbio ci si gode la vita, con buona pace di chi, a Johannesburg, lavora.
Questa città del capo è più vicina a londra che all’Africa e, rispetto alla città delle miniere d’oro è nata fortunata, con quegli scorci mozzafiato sul mare. Johannesburg però è la classica bruttina interessante: oltre le apparenze, s’intuisce che lì sta prendendo corpo qualcosa che può esistere solo nel Terzo Millennio, e che la Rainbow Nation, la nazione arcobaleno, non è più un’utopia.

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Fotografie di: Claudio Morelli
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