di Marta Calcagno Baldini | Fotografie di: Alexandra Avakian / National Geographic Traveler
L’antichissimo centro religioso di ebrei, cristiani e musulmani si rivela sorprendentemente polo culturale e laico di prima grandezza. Con gallerie, musei e quartieri pieni di giovani artisti, designer, creativi e persino modaioli
Dal mercato di Mahane Yehuda fino a Musrara, scopriamo insieme i luoghi della «città nuova», seguendo i racconti di Karin, Ariel, Itay, Ortal, Raffaele, trentenni con il desiderio e il bisogno di costruire a sé stessi e al Paese un futuro. Anche di pace
«Gerusalemme è un punto di partenza e d’arrivo. Qui ti trovi a un punto Zero. Da cui si riparte. La tua identità perde ogni legame preciso: devi scollegarti da te stesso per capire Gerusalemme». Sono i primi suggerimenti che arrivano, appena atterrata nella Città santa d’Israele, da Karin, 35 anni, di Philadelphia, per metà israeliana e per l’altra americana, da 20 anni a Gerusalemme. Ci siamo conosciute durante una cena nella Città Vecchia sul tetto del Mamilla Hotel, in cui si trova il Mamilla Rooftop Restaurant, da cui si gode di un’ottima vista sulla città. Karin lavora per il «Jerusalem Season of Culture», il grande evento che ha portato mostre, spettacoli e concerti a Gerusalemme da giugno a settembre. La conversazione parte facilmente alla domanda su come sia e cosa significhi oggi per un giovane vivere nella Città Santa: «Non è sempre facile, ma quello che vuoi lo puoi trovare», racconta ancora Karin.
Non sarà l’unica volta che i ragazzi intervistati parleranno di una metropoli multiforme, complicata, ma ricca di possibilità: «Per vivere qui devi tenere il tuo cuore e la tua mente il più aperti possibile», conferma qualche giorno dopo Ariel, 33 anni, israeliano di Gerusalemme, durante una visita nello studio del pittore Arik Pelzig, situato sul Monte Sion, sempre nella Città Vecchia: «A Gerusalemme c’è una autentica spinta giovanile», continua. «La storia, il tempo, i ricordi e il destino si mischiano tra loro e in questi innumerevoli stimoli i giovani trovano tanti spunti e possibilità, anche di lavoro». Lui ha una moglie e un figlio, vive insegnando in università e lavorando come guida turistica: «Molti giovani israeliani vengono a Gerusalemme per studiare soprattutto materie umanistiche e lavorare in settori culturali, per le altre materie è meglio andare a Tel Aviv».
«A Gerusalemme c’è una autentica spinta giovanile», continua Ariel. «La storia, il tempo, i ricordi e il destino si mischiano tra loro e in questi innumerevoli stimoli i giovani trovano tanti spunti e possibilità, anche di lavoro». Lui ha una moglie e un figlio, vive insegnando in università e lavorando come guida turistica: «Molti giovani israeliani vengono a Gerusalemme per studiare soprattutto materie umanistiche e lavorare in settori culturali, per le altre materie è meglio andare a Tel Aviv».
Certo, le tre religioni monoteistiche, ebraica, cristiana e musulmana, sono fortemente presenti a Gerusalemme e quindi arrivare nella Città Santa significa ritornare alle proprie origini, ovvero poter essere a stretto contatto con la parte più intima e spirituale di noi stessi. Ma non è solo questo. Il «punto di partenza» di cui parlano Karin e Ariel sta in qualcosa di nuovo e ancora sconosciuto, cioè nell’energia che pulsa per le vie di tutti i quartieri della città e che forse la sta pian piano staccando dalle grandi discussioni religiose-politiche. E questa nuova spinta arriva proprio dai trentenni che hanno scelto di stabilirsi a Gerusalemme, come Karin, o da quelli che qui sono nati, come Ariel.
«Quando pensi a questa città ti vengono subito in mente tensioni e conflitti», aggiunge Itay Mautner, 38 anni, direttore artistico e fondatore della Jerusalem Season of Culture. «Gerusalemme è fatta di polarità che vivono tutte insieme. Offrire, organizzare cultura qui significa anche proporre nuovi modelli di vita, la conoscenza, la curiosità e l’interazione diventano una risorsa fondamentale per noi giovani. Un esempio? il mercato di Mahane Yehuda, in centro, dove durante la seconda intifada i kamikaze della jihad islamica hanno fatto esplodere un’autobomba causando molti feriti. Proprio qui ora abbiamo iniziato a organizzare concerti, e il mercato è rinato. Gerusalemme è un luogo complicato, ma se crei un dialogo tra opinioni complesse riesci a ottenere anche più di ciò che avevi prima».
Far rivivere un mercato cominciando a organizzare concerti significa allora pensare alla cultura in modo non solo teorico o artistico, ma anche come chiave sociale e di gruppo. Questo è il «sapere» di cui a Gerusalemme si occupano i giovani: sembrano rendersi portavoce di una necessità di conoscenza come occasione di dialogo, spunti di riflessione e di divertimento. La sera infatti il mercato di Mahane Yehuda si popola di ragazzi, verso le 19, orario dell’aperitivo, tra bancarelle ancora stracolme di verdura fresca o formaggi, carne e pesce: «Ci troviamo a Yehuda per una birra più tardi, ok?». Ortal, la ragazza incontrata un pomeriggio in Bezalel Street 7, mi propone un aperitivo. Ci siamo conosciute nella sua piccola boutique di lavorazione del cuoio, nel palazzo di Designers in the city, il progetto dedicato a venti giovani che hanno a disposizione l’edificio a prezzi agevolati, e hanno l’opportunità di lavorare, produrre e vendere i propri prodotti lì.
Ortal ha 29 anni, è sposata e ha una bambina di sei mesi, che porta in negozio: «Sono tornata a Gerusalemme dopo un lungo periodo di assenza. Ho fatto due anni in armi come soldatessa, secondo la legge (per i maschi sono tre, nda), e poi come tutti i ragazzi d’Israele sono partita per vedere il mondo. Quella militare è un’esperienza molto dura e formativa, dopo la quale hai bisogno di un lungo stacco. Io sono stata in Thailandia, India e Italia, a Firenze, dove ho seguito un corso di lavorazione del cuoio». Ricapitolando, Ortal a 29 anni ha una laurea, un figlio, un marito, un lavoro, ha già fatto un’esperienza militare di due anni e un anno all’estero. «In Israele è normale», mi dice, «ma non è un obbligo. Ci sono anche giovani che a 30 anni non sono ancora sposati. Di certo la religione ci dà molto equilibrio, la maggior parte di noi la vive in modo aperto, libero e pacifico».
L’altro punto di ritrovo culturale dei giovani è la Torre di Davide, nel Quartiere ebraico della Città Vecchia: tra le rovine del Tempio è facile che si allestisca uno spazio per l’orchestra, e si suonino concerti di musica israeliana: «Noi vogliamo unire diverse culture», spiegano i musicisti della New Jerusalem Orchestra. «La maggior parte delle nostre musiche nasce dalla fusione di diverse tradizioni e generi musicali. Cerchiamo un equilibrio tra le varie ispirazioni, la nostra musica vuole essere un messaggio di pace, di stabilizzazione e di apertura».
C’è un quartiere che più degli altri riflette il desiderio dei giovani di vivere riconoscendo e rispettando la complessità di Gerusalemme: è Musrara, al confine tra la Città Vecchia, la parte nuova (la Givat Ram) e l’ultraortodosso quartiere di Meir Sharim. La sua posizione d’incrocio ne ha determinato nel corso del tempo la diversità sociale e culturale, che talvolta è causa di tensioni più o meno sotterranee. Ora però è la creatività dei giovani a porre le basi per una nuova possibile convivenza. È qui che si trova, infatti, la sede del Muslala group, no profit nata nel 2009 grazie ad artisti e abitanti nel quartiere che organizza mostre, visite guidate, workshop e corsi vari, ha un centro incontri e uno spazio espositivo. L’arte ha per Muslala un ruolo sociale: «Noi vogliamo che l’atteggiamento aperto del gruppo sia di responsabilizzazione verso tutto il quartiere. L’arte è un modo per comunicare con le persone, e questo luogo, in cui lavoriamo, creiamo e produciamo, vogliamo sia sempre aperto per accogliere chiunque voglia esprimersi».
All’interno del quartiere ci sono altre due organizzazioni nate con l’obiettivo di favorire un messaggio di unione e rinascita attraverso l’arte: il Gerusalem Print Workshop, un centro d’arte specializzato in stampa e grafica che possiede anche una galleria d’arte e una buona collezione di opere, e la Scuola di fotografia, media e nuova musica.
Un’ulteriore conferma dell’importanza di Gerusalemme per la formazione dei giovani e la possibilità di applicare la propria arte con intenti di unione e riappacificazione arriva dall’Israel Museum, inaugurato nel 1965 e oggi fondamentale testimonianza delle diverse correnti culturali da sempre presenti nella comunità ebraica: ha sede nell’area nuova di Givat Ram, che ospita anche altri musei, istituzioni governative e giardini. Nell’Israel Museum si raccolgono, conservano, studiano e sono tutelate opere che raccontano la storia di Gerusalemme e d’Israele nei secoli. «Non vogliamo che Israele vada a finire nelle mani degli estremisti religiosi», dice Raffaele Silbertstein, guida turistica. «Qui si dice “Ieè besseder”, ovvero “Andrà bene”. È lo spirito di Gerusalemme. E questo museo ne è una prova concreta: l’intifada non può vincere. Quindi reagiamo con la cultura e la ricerca, che ha portato le persone a voler aprire gallerie, musei, ma anche bar, ristoranti. Luoghi di dibattito insomma. Il Museo d’Israele è stata tra le prime e una delle più importanti operazioni culturali e di reazione che gli israeliani hanno compiuto».
La cultura si rivela insomma una risorsa fondamentale, un motore, uno stimolo imprevedibile e una forza. Attraverso l’arte si esprimono idee solide e si portano concetti profondi non solo nell’attività di musei, teatri e gallerie, ma anche attraverso i centri di formazione. L’Accademia d’arte e design di Bezalel viene fondata a Gerusalemme nel 1906 dallo scultore Boris Schatz come Scuola d’arti e mestieri di Bezalel. È stata la prima scuola d’arte del nuovo Stato di Israele. Il nome si riferisce simbolicamente a Bezalel Ben Uri, primo «artista» citato nella Bibbia. «Oggi questa scuola è anche un simbolo d’identità per il Paese», spiega Tania Coen-Uzzielli, romana, 40 anni e da 20 in Israele, oggi capo dei curatori del Museo d’Israele e curatore della parte di arte ebraica. «Un giovane israeliano che voglia fare l’artista dovrebbe formarsi a Gerusalemme, indubbiamente qui ci sono anche molte possibilità per lavorare in cultura. Non conta se sei donna o uomo, e nemmeno la religione a cui appartieni. Basti pensare che tutti gli chief curator sono donne, qui all’Israel Museum, e il direttore, James S. Snyder, è americano di Pittsburgh ed è arrivato dal Moma di New York». E conclude: «La cultura è mista qui, e per i giovani c’è la possibilità di un futuro vero, soprattutto nel mondo dell’arte».