di Stefano Bartezzaghi
Le riflessioni filosofiche dell'enigmista Stefano Bartezzaghi questa volta partono dagli atlanti. Volumi ingombranti che ai tempi della scuola lo terrorizzavano e oggi l'affascinano. Soprattutto quando contengono i nomi delle regione storiche, luoghi senza confini definiti che spesso diventano stati della mente.
Io ricordo con precisione la cerimonia dell’acquisto dei libri di scuola. Prima che io potessi prenderli in mano andavano ricoperti con apposite protezioni di plastica. Il mio primo tocco avrebbe cominciato a rovinarli e quindi l’apertura spettava a mio padre (che ha contagiato con il suo amore per la carta stampata tutti e tre i suoi figli). Lui per primo accarezzava le pagine, guardava gli indici, sospirava con nostalgia per il tempo della scuola, che a noi sembrava invece tempo più che altro perduto. Allora non capivo perché a mio padre piacesse soprattutto l’atlante geografico, che per noi era in primo luogo un libro scomodo da mettere in cartella e in secondo luogo l’incarnazione editoriale della materia scolastica considerata dall’unanimità degli studenti la più arida, futile e torturante. Nessuno studente «va bene» in geografia: è una materia-pillola amara, una naia diluita nel succedersi delle classi, la prima materia che viene trascurata dai professori in ritardo coi programmi delle materie «serie», ma anche la serpe in seno che si risveglia all’improvviso sotto forma di interrogazione a sorpresa, con insufficienza assicurata. Esauriti gli obblighi scolastici, non passarono molti anni prima che mi procurassi il grande Atlante del Touring, il cui allegato indice dei nomi era un volume grosso come un vocabolario: lo sfogliavo con ammirazione e spirito di avventura non inferiori a quelli che mi ispiravano le mappe.
Lo scrittore Edgar Allan Poe racconta del gioco che si fa chiedendo di indovinare un nome trovato su un atlante geografico. Solo gli ingenui, ammonisce Poe, pensano che i nomi difficili siano quelli scritti in piccolo. In realtà i nomi che veramente non vengono notati sono quelli scritti in grande, che attraversano ampie porzioni della mappa. È il principio del documento segreto, che viene nascosto lasciandolo sotto gli occhi di tutti: infatti l’esempio viene proprio dal suo racconto «La lettera rubata». Sull’atlante si trovano i nomi dei luoghi famosi e di quelli sconosciuti, noti e ignoti, «seri» e «buffi», che metto fra virgolette perché immagino che a Canicattì e a Forlimpopoli il nome del luogo in cui si trovano non parrà tanto buffo.
Se dovessi dire quali sono i nomi più affascinanti, però, non indicherei nessuno di questi generi, bensì i nomi delle cosiddette «regioni storiche» (ma dire «regioni storiche» non sarà come dire «momenti geografici»?). Sull’atlante i nomi delle città e dei paesi sono scritti vicini a punti, pallini o quadratini di diversa grandezza, e così quelli delle vette; i nomi delle regioni e delle nazioni sono scritti in mezzo a linee variamente tratteggiate; quelli dei fiumi lungo i loro corsi.
Poi ogni tanto ci sono nomi scritti in mezzo agli altri, scritti non secondo una linea retta ma lungo un piccolo arco di circonferenza, come a seguire la curvatura della Terra. Questi nomi non corrispondono ad alcun confine o ad alcun punto di riferimento sull’atlante. Del resto è così anche sul territorio: dove incomincia la Brianza? E la Lomellina? L’alto e il basso Monferrato? Il Salento e il Cilento, la Versilia, l’Irpinia, la Ciociaria... Terre che non hanno veri e propri confini, limiti su cui tutti siano concordi. Terre senza capoluoghi, istituzioni, autorità riconosciute; terre di cui le enciclopedie, quando dedicano loro una voce, non sanno bene cosa dire. È encomiabile che si trovino sull’atlante, tanto più che il cartografo deve rassegnarsi a indicarle con approssimazione.
Una di queste regioni è la Sologne, in Francia. È un territorio vistosamente magico. Quando ci si va, non si sa dove inizi; ma quando si è in Sologne si sa di essere là. Più che regioni, infatti, queste sono stati: nel senso degli stati d’animo.