Panama, quando cambia il canale

Monica VinellaMonica VinellaMonica VinellaMonica VinellaMonica VinellaMonica Vinella

La vigilia dei cent’anni del passaggio tra Atlantico e Pacifico è il momento ideale per assaporare le atmosfere decadenti, letterarie e un po’ piratesche del piccolo Stato centramericano. Ma il progresso mette a repentaglio un paradiso naturale, l'arcipelago di San Blas. Difeso strenuamente dagli indios kuna, e da uno skipper italiano innamoratosi di questo mare

Basta un colpo d'ala, una virata improvvisa, uno scarto agile e il pesce è suo. Il gabbiano guarda la fregata che gli ha rubato il pranzo e sicuramente la maledice. Poi si tuffa di nuovo. Sa di non avere molto tempo. Sa che quando la chiusa si aprirà di nuovo, il tesoro di cibo che si è venuto a creare dall’unione di acqua dolce e salata, che ha asfissiato una gran quantità di pesci, si disperderà definitivamente. Se questo accadrà, il gabbiano dovrà aspettare un’altra nave. Dovrà calcolare la sua fame sui tempi di attraversamento del canale, sul suo traffico.

Ha poco tempo e allora, ostinato e affamato, si rituffa nell’acqua scura del canale di Panama, sperando che non ci siano altri predatori come lui in giro. Ha anche un altro vantaggio dalla sua: sa che le fregate non sanno nuotare e se si manterrà abbastanza vicino al pelo dell’acqua potrà mangiare in tutta tranquillità. Da un lato, draghe gigantesche e trivelle preparano un nuovo letto al canale. La data per l’inaugurazione del raddoppio è prevista per il 2014, allo scadere dei suoi primi cento anni. C’è tempo, ma i lavori fervono perché tutto qui sembra aver cambiato marcia...

C’è tempo, ma i lavori fervono perché tutto qui sembra aver cambiato marcia: il Pil cresce del 3 per cento ogni anno; le ristrutturazioni nella parte vecchia della città di Panama presto concederanno ai turisti una visione più pulita e meno piratesca dei vicoli del Casco antiguo e dei palazzi coloniali; nuovi negozi hanno aperto in centro, sull’avenida A, dove sopravvivono piccole rivendite di snack locali, vicino a botteghe artigianali e a boutique, o atelier di artisti.  

Si dice che i periodi di transizione di uno stato o di un popolo siano i più interessanti. E allora Panama andrebbe visitata esattamente in questo momento della sua vita. Riuscirà a mantenere quell’atmosfera leggermente decadente e letteraria dopo che i restauratori avranno rifatto il trucco al quartiere degli spagnoli e dei francesi? Probabilmente no. Ma ciò che sarà dopo non si potrà sapere finché non si realizzerà. Per ora il viaggio varrebbe anche solo per essere testimoni di un cambiamento che a una prima occhiata non appare poi così sofferto. Per visualizzarla, questa transizione, basterebbe racchiudere in un solo sguardo i grattacieli e la muraglia cinquecentesca costruita dagli spagnoli nel Casco antiguo. Quale fra questi due paesaggi avrà la meglio?

Forse nessuno, perché Panama è così, si manterrà probabilmente sul filo della trasformazione, così come vive a cavallo di due oceani. Giovane Stato in via di sviluppo e regina caraibica colorata, lenta, pigra, assolata. Ed è questa, in fondo, la cifra del suo fascino. Quando i lavori di recupero del suo patrimonio artistico e storico saranno definitivamente terminati, le istantanee che descriveranno la città di Panama probabilmente saranno due: il Tornillo, ovvero il grattacielo più bizzarro, verde, a forma di vite, della nuova capitale e l’altare d’oro della chiesa di S. José nel Casco antiguo, unica cosa preziosa sfuggita ai pirati al seguito di Henry Morgan durante il saccheggio del 1671.

 

L’immagine, o le immagini, della nuova panama saranno anche gli impiegati delle compagnie che lavorano fra i palazzi contemporanei e gli indios che vendono serafici i loro prodotti sotto il paseo Esteban Huertas, affogato di buganville in fiore e affacciato sulla baia. Infine, certamente, rimarranno angoli in cui ancora prospera la più assoluta lentezza. Per raggiungerli, anche adesso, basta prendere un volo dall’aeroporto di Albrook, il secondo della capitale. Un’ora in un aereo minuscolo e si atterra sul mar dei Caraibi.

L’arcipelago di Bocas del Toro è oggi la patria dei surfisti come ieri lo era dei pirati. È una specie di Venezia caraibica, a ridosso del Costa Rica, ricca di lagune segrete, di case-palafitte a strapiombo sull’acqua, di colori accesi e animali esotici, di isolotti di mangrovie e taxi acquatici che solcano il mare calmo su cui la comunità si affaccia prendendosi cura dei numerosi turisti, delle rarissime rane rosse velenose e delle riserve naturali a cui è stato affidato il futuro dell’arcipelago.

Altro discorso, invece, va fatto per il gruppo di isole che si trova all’estremo opposto del versante caraibico di Panama, quello al confine con la Colombia. A San Blas vive la comunità amerinda dei kuna. Si entra in punta di piedi in questo paradiso. I kuna sono severi quando c’è da condividere il loro cosmo di atolli e mare trasparente, di cocchi, di palme, di piogge e di sole. Lo difendono – e a ragione – da ogni intrusione esterna, forti dell’ostinazione che li ha resi padroni della loro terra. Ai waga, cioè ai non-kuna, è vietato lavorare, pescare, raccogliere i frutti degli alberi che gli indios curano. La comunità e l’Eden che li circonda sono un organismo unico che respira all’unisono. Questo legame non è spezzato neanche dal contatto con la globalizzazione che pure sta modificando le nuove generazioni.  

Ne è convinto Amedeo Sorrentino, comandante e skipper che da otto anni, con il rispetto che si deve a questo popolo, accompagna con le sue barche i turisti nell’arcipelago. «Non credo che i giovani kuna sfasceranno il sistema per un telefonino. Ma neanche lo svenderanno per qualche milione di dollari, perché secondo me hanno già capito che non conterebbero più niente. Finché sono in grado di comprendere questo, e le nuove generazioni lo capiranno, non perderanno. Far costruire anche solo un villaggio turistico significa perdere tutto, in un attimo».

Qui si viene per entrare in contatto con un popolo antico ed estremamente fiero. Per avvicinarsi senza invadere e per riempirsi gli occhi di paesaggi indimenticabili ancora intatti. Non ci sono bar, né ristoranti, l’accoglienza passa per minuscoli lodge costruiti con poche assi di legno. In qualche modo, qui, nella terra dei kuna, si viene per vivere quasi come i suoi proprietari. Per stabilire il legame con un mondo naturale che a questa latitudine è il signore assoluto. Sulla sabbia bianca di un isolotto sperduto, o davanti al mare aperto che ruggisce appena oltrepassata la barriera corallina, o nei villaggi affollati di donne intente a cucire molas, pezze di cotone colorato sovrapposte a formare disegni tradizionali, ci si immerge nei colori e nei ritmi che il luogo offre in prestito, ma non regala. Protetti dalle due divinità ancestrali che guardano il loro popolo: Baba, dio maschio del sole, e Nana, la madre, la terra. E forse soltanto qui si potrà dare una risposta agli interrogativi sul futuro di Panama. Perché guai a considerare l’istantanea meravigliosa che si può ammirare oggi a San Blas un’immagine statica. Qui si cambia lentamente senza abbandonare il proprio bagaglio di esperienze e tradizioni e a volte si resiste, perché le trasformazioni spesso richiedono il pagamento di un prezzo alto.

San Blas, dice bene Sorrentino: «Non è un museo di esseri viventi destinati a morire. No, non è un giardino zoologico di indios. È un’umanità dalla quale dovremmo imparare parecchio. È un altro mondo. Finché dura». Già. Finché dura.  

Fotografie di: Monica Vinella
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