di Clelia Arduini | Fotografie di: Giuseppe Carotenuto,/,Corbis,Tips,Alessandro Addis / Spexi,Cesare Re / Cubo Images,Cuboimages,Giorgio Mesturini / Cubo Images,Michele Bella / Cubo Images,Giovanni Simeone / Sime
Il quarantesimo anniversario della convenzione che ha dato vita alla World Heritage List è l'occasione per esaminare la situazione dei siti italiani. In tutto il pianeta attirano visitatori e hanno grandi ritorni economici. Tranne che in Italia, numero uno al mondo della classifica, dove spesso sono lasciati al degrado. Ma ora si cambia...
«Guardi sui fianchi della Maiella, là si nascondono gli eremi di Pietro da Morrone, poi papa Celestino V, presto Patrimonio dell’umanità». Lo storico Licio Di Biase si emoziona. È stato lui a proporre di custodire questi luoghi nella casa di tutti i beni culturali del mondo: il Partenone, l’emblema con cui l’Unesco (organizzazione dell’Onu per l’educazione, la scienza e la cultura) da 40 anni marchia le eccellenze del mondo.
In Italia, secondo una ricerca dello Iulm di Milano, lo conosce il 98 per cento dei cittadini, il 77 per cento sa indicare la sua missione e, ancora più importante, il 66 per cento ne ha piena fiducia. Di questi tempi è un primato. Quarant’anni fa, nel novembre 1972, erano 153 gli Stati che, sotto l’egida dell’Unesco, sottoscrissero la convenzione per dare vita alla World heritage list: un’arca di Noé dell’epoca moderna dove custodire le bellezze rappresentative del cammino della civiltà umana e dell’evoluzione del pianeta, da salvaguardare per le generazioni future.
Oggi gli Stati membri sono 189 e il patrimonio da tutelare ammonta a 962 siti. Sono aumentate anche le guerre, i disastri naturali, le violenze al paesaggio e all’arte, eppure la corazzata Unesco, in direzione ostinata e contraria, prosegue nella sua “mission impossible”: salvare tutto il bello nel mondo.
I tecnici Unesco prevedono uno stop o almeno un rallentamento. Arrivati quasi a quota mille, i siti incominciano a diventare troppi. Attualmente nella tentative list – una sorta di panchina dove si aspetta di essere chiamati – ci sono 1.544 nomi, ma il dato è in continua evoluzione. C’è pure l’elenco dei beni immateriali creato nel 2003, che racchiude finora 166 tradizioni, ovvero la conoscenza delle comunità mondiali riconosciuto come parte del loro patrimonio culturale.
Noi italiani come siamo messi? Bene e male. Vale a dire che abbiamo tantissime eccellenze, ma non le sappiamo valorizzare. L’Italia, infatti, è in vetta alla classifica mondiale con 47 luoghi d’eccellenza di cui tre naturali.
Vediamo come stanno le cose partendo da una breve cronistoria. La prima a meritarsi il gallone per le incisioni rupestri è stata la Valcamonica, nel 1979, gli ultimi, nel 2011, la rete di sette fortezze, chiese e monasteri – sparsi per la Penisola – che rappresenta il potere longobardo in Italia e i siti palafitticoli dell’arco alpino: 19 aree archeologiche tra Lombardia, Veneto, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige. Anche tra i beni immateriali ci sono eccellenze made in Italy: il canto a tenore sardo, l’opera dei pupi siciliani, la dieta mediterranea e (in predicato) l’arte liutaia di Cremona.
E non è finita qui. in panchina, 41 candidati italiani sognano il bollino Unesco. In pole position l’Etna e le ville medicee nei dintorni di Firenze; poi i Paesaggi vitivinicoli del Piemonte, Langhe-Roero e Monferrato e, ancora, Perugia con l’arco e le mura etrusche, Ivrea e il suo centro, Ostuni e la piana degli ulivi secolari, la ferrovia Porrettana, le colline di Valdobbiadene e Prosecco, le isole Tremiti, i tratturi foggiani della transumanza. Una lista d’attesa che ha buon motivo di essere.
«Grazie al brand Unesco» – spiega Claudio Ricci, presidente dell’Associazione siti e città dell’Unesco e sindaco di Assisi – «in 5-10 anni un luogo registra in media un incremento di turismo di circa il 15-20 per cento». Entrare tra le eccellenze non è però una cosa facile. «La candidatura alla lista» spiega Gianni Bonazzi responsabile dell’ufficio Unesco del Mibac, il ministero per i Beni e le Attività culturali «è un processo complesso. C’è una commissione nazionale italiana, ci sono poi i ministeri competenti. Il Mibac le esamina e valuta, tenendo presente che l’Unesco tende a essere restrittiva verso i Paesi con molti siti, privilegiando quelli poco rappresentati. Quindi si procede alla candidatura».
Sono infine necessari un dossier di presentazione e un piano di gestione. E devono essere indicate le azioni di tutela e valorizzazione, il costo, i finanziamenti e i misuratori. Si tratta dunque di un marchio impegnativo e di una grande responsabilità che, come ha affermato di recente il ministro del Turismo Piero Gnudi, «obbliga tutti, amministratori e operatori, a una efficace valorizzazione e a un investimento mirato alla conservazione».
E qui viene il difficile per noi italiani. Da quando è nata la Repubblica, la cultura non è mai stata vista come uno strumento per lo sviluppo del Paese (i finanziamenti dello Stato si sono ridotti anno dopo anno: da 1 miliardo e 649 milioni nel 2008 a 579 milioni quest’anno) e anche i siti Unesco non sfuggono a questa realtà. Siamo il bengodi delle eccellenze, ma non siamo capaci di promuoverle.
Una recente ricerca di Pricewaterhouse Coopers rileva che i 47 luoghi firmati Unesco del nostro Paese – pari al 4,8 per cento del Patrimonio dell’umanità nel mondo – godono di uno scarso ritorno commerciale: 16 volte inferiore a quello dei siti americani (che sono la metà), sette di meno di quello dei beni inglesi e quattro di quello dei francesi. Per questo è nato tre anni fa ad Assisi il Wte World Heritage Tourism Expo, un’occasione per promuovere le eccellenze dell’umanità.
Ma c’è tanto ancora da fare. Gli studiosi dicono che l’immobilismo del sistema culturale è frutto di una visione della conservazione del patrimonio artistico che ha messo in secondo piano la valorizzazione e il rapporto con il suo uso per la crescita economica. E, come ha detto di recente l’archeologo Andrea Carandini, anche la conservazione pura e semplice non funziona più. Troppi i casi di incuria e di degrado, anche tra i siti Patrimonio dell’umanità. Tra questi, i centri del Val di Noto, l’area etrusca di Cerveteri saccheggiata dai tombaroli, la reggia di Caserta divenuta rifugio di extracomunitari e venditori ambulanti, la villa di Poppea, nel sito archeologico di Oplontis a Torre Annunziata, con i pavimenti e gli affreschi gonfi per le infiltrazioni.
Pompei, tesoro unico al mondo, è talmente degradata che se ne sono accorti anche i visitatori: ad agosto hanno fatto registrare un calo del 5,6 per cento (del 6,4 sugli incassi). È la prima flessione dopo oltre un decennio di successi internazionali. E dovrebbe far squillare un campanello d’allarme. L’unica cosa positiva è che, per ora, il sito più amato del pianeta non sarà espulso dalla lista Unesco: al Mibac sono tranquilli per la prossima verifica del luglio 2013.
Ma non è ancora finito il catalogo del nostro paradossale autolesionismo: l’area archeologica di Paestum ha subito una flessione del 25,4 per cento per i visitatori e del 45 per cento sugli introiti; male pure il circuito vanvitelliano della reggia di Caserta con una flessione del 9,3 per cento sui visitatori e del 16,3 sui biglietti staccati, così come Villa Adriana, il complesso della residenza imperiale di Tivoli, con il 7,9 in meno sul fronte dei turisti e una diminuzione del 43,9 su quello degli incassi. E la crisi economica ha poi dato la mazzata finale.
«È evidente» dice Nicola Bono, presidente dell’Associazione delle province Unesco del Sud Italia «quanto nel nostro Paese ci sia molto da lavorare per sviluppare un rapporto più stretto fra industria turistica e patrimonio artistico e culturale. Ricominciamo dal Codice dei beni culturali per regolare finalmente l’intervento dei privati nel pubblico».
Non c’è dubbio, lo Stato ha bisogno di aiuto. «Se fosse possibile mi farei carico della gestione della reggia di Caserta» dice Stefano Sgueglia, l’imprenditore campano che qualche anno fa ha rilevato da un privato il castello di Limatola in provincia di Benevento, in completo stato di abbandono, trasformandolo dopo un attento restauro in un luogo di storia e di sogno che dà lavoro a 40 persone. «Vorrei ora impegnarmi per qualche altro bene culturale. Vedere il complesso della reggia di Vanvitelli così trascurato mi fa male al cuore».
Ma c’è chi è ottimista. Francesco Bandarin, autorevole vicedirettore generale del settore cultura dell’Unesco. «Non buttiamoci troppo giù. L’Italia resta sempre in testa per l’importanza e l’interesse per la cultura e il patrimonio. Certo, la crisi conta, ma sono convinto che un’azione intelligente di sinergia tra governo, istituzioni locali e privati salverà il nostro patrimonio».