di Giuseppe Cederna | Fotografie di: Bruce Dale/ National Geographic stock,Giuseppe Cederna,Cuboimages
Un viaggio che è una prova: riuscirà l'attore Giuseppe Cederna a far godere un viaggio estivo a Creta a due adolescenti in convivenza forzata? Le avventure di una famiglia particolare alla scoperta di una delle isole più affascinanti del Mediterraneo, culla di una civiltà antica e misteriosa.
«Siete una bella famiglia, come ne capitano poche quassù. Ho preparato un piccolo omaggio per ognuno di voi». Lambros ci guarda dritto negli occhi e comincia distribuire i suoi doni. «A Margherita – complimenti: very nice name – miele di timo delle nostre api, a Bernardo un vasetto di mele cotogne del giardino, alla signora e a te due sacchetti di erbe raccolte in questa valle: maggiorana, menta, timo, camomilla e salvia. Così vi ricorderete di Thronos e della taverna di Aravanes. Buon viaggio». Non me l’aspettavo, mi sono quasi commosso. Lambros se ne è accorto e ha annuito. Ci stringiamo la mano e so già che tornerò a trovarlo. Siamo solo a metà della nostra vacanza ma il viaggio, grazie a questo luogo e al suo genius loci in forma umana, ci ha fatto uno di quei regali di cui ti ricordi per molto tempo. Risaliamo in macchina e per un po’ nessuno parla. C’è una strana tensione. Siamo veramente una famiglia particolare, più di quanto Lambros possa immaginare. Ma chi è Lambros Papoutzakis e come siamo arrivati alla sua taverna arrampicata in cima a questa valle umida e fresca – ogni villaggio una fontana e una sorgente d’acqua –, verde di boschi e campi coltivati, tra le colline nel centro di Creta? E soprattutto che tipo di famiglia speciale siamo?
Andiamo con ordine. Bernardo è il figlio della mia ex moglie, gli voglio bene come se fosse mio ma vive in Liguria e vedersi con continuità non è facile. Lo conosco da quando aveva quattro anni, ora ne ha diciassette. Margherita è la figlia quindicenne di Alessandra, la mia compagna. Un sorriso fatale e la schiva, apparente tranquillità di un’adolescente. Due età difficili: un bel rischio assemblarle in due settimane di convivenza forzata. Che fare? Andare da soli o rischiare la famiglia allargata? Abbiamo scelto il rischio, la fiducia nel potere taumaturgico e accogliente del viaggio. Dopotutto Bernardo e Margherita si sono conosciuti in montagna l’anno scorso e l’idea di passare qualche giorno di nuovo insieme non sembrava preoccuparli.
A dire la verità, preoccupata era Alessandra. Per tranquillizzarla le avevo promesso che sarei stato quello che in viaggio non sono mai abbastanza: democratico. In viaggio, la sola democrazia a cui mi inchino è quella della mia curiosità, fatta di incontri, letture, deviazioni. Ma questa volta starò più attento ai bisogni degli altri. «Bravo. Coinvolgiamoli il più possibile. Vorrei che decidessero anche loro». «Perfettamente d’accordo».
L'operazione coinvolgimento è culminata, la sera prima di partire, a cena. «Ragazzi, vi rendete conto? Si va a Creta! La culla di una delle civiltà più affascinanti, misteriose ed evolute del Mediterraneo. Margherita ne ha appena studiato la storia, vero?» ha esordito Alessandra. Margherita ha sorriso, ma poi, schernendosi, ha aggiunto «non ne so molto... Posso provare però». Toccava a me: «Vorrei esplorarne un po’ anche l’interno. Curiosando nella Libreria del viaggiatore che, guarda caso, sta proprio in via del Pellegrino (a Roma, ndr), ho scoperto il libro che ci farà da guida: Lo scalino d’oro di Christopher Somerville. Un viaggio a piedi nel cuore di Creta da est a ovest, dalle rovine di un antico villaggio sul mare a un monastero all’estremità opposta. Noi viaggeremo in macchina, ma grazie a Christopher scopriremo luoghi remoti, persone straordinarie e storie che ci aiuteranno a capire, a dare un senso al nostro viaggio. Sarà un viaggio vero, non solo una vacanza. Che ne dite?». I ragazzi hanno annuito, ma la faccia neutra e un grado di entusiasmo prossimo allo zero avrebbero dovuto metterci in allarme. Ma oramai eravamo in ballo e io ho concluso parlando della resistenza. «Durante la seconda guerra mondiale Creta è stata il teatro di una delle più fiere e sanguinose battaglie antinaziste. Staffette partigiane che marciavano di notte, rapimenti rocamboleschi, fughe in montagna, rappresaglie, evacuazioni. Interi villaggi di montagna bruciati, senza che l’isola, il carattere libero dei suoi abitanti, si piegasse di un millimetro».
Questo racconto aveva acceso una luce negli occhi di Bernardo e Margherita. E prima che si alzassero da tavola e scomparissero, avevo aggiunto «ci inventeremo il viaggio giorno per giorno, sarà un’avventura on the road, la nostra avventura insieme».
E così siamo atterrati a iraklio. Auto all’aeroporto e alberghetto centrale incastrato nel più orrendo caos di cemento intensivo in stile italo-greco. Notte torrida in camera da quattro, visita alla fontana veneziana, colazione e fuga decisa all’unisono. Valigie di nuovo in macchina e Museo archeologico, poi sulla strada per Cnosso.
Il Museo archeologico e Cnosso sono stati decisi insieme. Per quanto riguarda Festo, Agia Triada e altri siti artistico-archeologici siamo rimasti sul democratico: facoltativi. Compriamo frutta, Coca- Cola, finti Rayban anni Sessanta e cappelli di paglia. Margherita e Bernardo sono contenti, si guardano intorno e sembrano colpiti da quello che vedono.
Compatto come una cassaforte, piccolo, basso, dipinto di un tenue giallo canarino, il Museo archeologico di Iraklio è una delle meraviglie del mondo. Da solo vale la visita a Creta. Nelle sue cento vetrine è raccolto un millennio di arte minoica e micenea. Un labirinto di stili, di sfumature: dall’astratto al naturalismo, dal barocco al geometrico, dal primitivo al floreale. E il filo di Arianna è la ceramica. Scriveva nel 1982 Antonio Cederna (giornalista, ambientalista e intellettuale italiano, nonché padre dell’autore, ndr): «È sorprendente come nell’arte minoica non si avverta la più lontana eco delle catastrofi che a periodi ricorrenti hanno funestato l’isola: quasi a contrasto e per deliberato proposito essa ha prodotto solo oggetti estremamente delicati e fragili, frutto di tecniche raffinate e preziose».
Come fuochi d’artificio nella notte, il mistero e la grazia di questi capolavori ci accompagnano verso un altro labirinto, il palazzo del re Minosse a Cnosso. Caldo, suoni di cicale, un venticello da nord. E la flautata cantilena della nostra guida. «Ecco la prima strada reale della prima civiltà europea, la prima arena del mondo, il primo trono ergonomico in alabastro, le prime toilette autopulenti della storia». Con l’aiuto di Irene, una gentile signora che ha studiato storia dell’arte a Padova, lo esploriamo in meno di un’ora e mezza. Prima di andarcene ci sediamo sotto un pino a mangiare una banana. Respiro l’aria calda del calcare e del gesso alabastrino di Cnosso e penso a mio padre, mia madre e mio fratello Giulio, sotto questi stessi pini, esattamente trent’anni fa, l’estate dell’82, quella dei Mondiali di Spagna. «Si prova una leggera sensazione di vertigine. (…) Questo popolo era indifferente alla sorte delle proprie opere e non aveva quell’idea di durata e perennità che ispiravano Egizi e Greci. Proprio qui sta il fascino dei palazzi minoici: in questa concezione sregolata, esuberante, fantasiosa, un po folle, “onirica”, del costruire, del vivere, dell’abitare».
Alle tre e mezza, dopo una spremuta e un panino al prosciutto, siamo di nuovo sulla strada. I ragazzi si sono infilati le cuffie dell’iPod e dopo un po’ si addormentano. Cnosso, Apostoli, Kastelli, punto a est, verso le colline. Seguo l’istinto: mi guidano i nomi sconosciuti sui cartelli bucati dalle pallottole dei cacciatori, il piacere di andare lento, curva su curva, deviazione su deviazione, fino a un altro cartello scolorito: Lithos. E a una chiesetta panoramica cui porta solo una stradella bianca stretta tra i cespugli di rose canine. Fermo la macchina, scendiamo tutti a sgranchirci le gambe nel vento che sale dalla valle. C’è un buon profumo di erba, di campagna, di viti. Dove siamo? Non importa. «Il viaggio vero e proprio è cominciato, ragazzi. Qui intorno ci devono essere le rovine di una città-Stato dorica citata da Omero nell’Odissea».
Si riparte. la strada è sempre più tortuosa, sempre più incolore. Sulla carta, da gialla ora è diventata bianca. Un’altra deviazione, un’altra fermata d’istinto. Moni Kardiotissa: cipressi, ciottoli bianchi, la pace di una chiesa e di un cortile fiorito. Il sacro. E il miracolo di un’icona rubata dai Turchi, incatenata a una colonna di Costantinopoli e poi ritornata misteriosamente nel suo monastero. «Kyrie eleison, kyrie eleison, kyrie eleison». Una vecchia monaca vestita di nero spazza la chiesa e prega. Ci vede e sussurra «miracle, miracle». I ragazzi, abbandonati sui sedili, dormono profondamente. Fin qui tutto era filato liscio, ma ora un campanello d’allarme ha cominciato a squillare. Se ne è accorta anche Alessandra, sorride e mi strizza l’occhio.
Ultima salita fino a un intaglio nella roccia sorvegliato dai resti di vecchi mulini a vento e all’improvviso, tra brulle, poderose montagne, ci appare una larga valle coltivata a perdita d’occhio: orti, vigneti, giardini fioriti con meli, peri, ciliegi e alti noci. È l’altopiano di Lassithi. I ragazzi dormono fino a Kritsa, un romantico villaggio sulla costa rocciosa della collina dove passeremo la notte al fresco e ceneremo in una taverna sotto i platani.
È il canto ipnotico di un monaco a tessere il nuovo giorno. Mentre facciamo colazione sotto il fitto pergolato verde di Argiro, la nostra padrona di casa, il ronzio delle api si unisce alla preghiera. Prima che arrivino i pullman dei turisti raggiungiamo Panagia Kera, una delle meraviglie dell’arte bizantina cretese. Un boschetto di pini e cipressi e un carrubo vecchio almeno quanto Matusalemme. Attorno, tutto è silenzio.
Posata sulla terra come una conchiglia rara, Panagia Kera è tutta per noi, ma è chiusa per le elezioni del nuovo governo greco. Ci arrampichiamo per sbirciare dalle strette finestre il suo ciclo di affreschi considerato il più bello di tutta Creta. Nell’ombra popolata di figure lo sguardo quieto della Madre di Dio ci invita a tornare. Yogurt, miele, uova strapazzate, spremuta, pane tostato, tè e caffellatte: accuditi da Argiro, Bernardo e Margherita stanno facendo colazione. Dopo il rito dei saluti e la foto ricordo risalgono in macchina e Bernardo mi passa un auricolare. Lascio Kritsa ascoltando Take me to the river dei Talking Heads.
Per il nostro primo tuffo nel mare cretese puntiamo verso l’estremità orientale dell’isola, Zakros: il sito di un antico palazzo minoico da cui cominciò l’avventura de Lo scalino d’oro, il mio libro guida. Se i luoghi hanno un’anima, quella di Zakros ci è venuta incontro, quasi volesse metterci alla prova. A pochi chilometri dalla nostra meta, un pugno di cipressi sghembi, isolati in un mare argentato di bassi olivi, attira la mia attenzione. Mi fermo e scendo dalla macchina. È un piccolo cimitero di campagna. Una ventina di tombe orientate a est, foto in bianco e nero di coppie antiche, vestite in costume. Un mondo scomparso, battuto dal vento, un luogo della memoria. Un uomo è chino sulla tomba di sua madre. È tornato dall’America per starle accanto.
L’arrivo a zakros è un colpo al cuore. La strada si srotola tra una distesa di basse cupole viola di timo fiorito, aprendosi di colpo all’orizzonte del mare. Una baia intatta di acqua turchese limpida come un cristallo, poche camere da affittare, tre taverne e un sentiero tra gli orti gonfi di frutti e verdura fino al recinto del palazzo. Zakros deve la sua sopravvivenza a quelle gloriose pietre erose dal tempo. Per sua e nostra fortuna ai siti archeologici lo stupro del cemento è risparmiato. Con Alessandra stenderemo i nostri passi in una di quelle straordinarie spaccature per cui Creta è famosa, la Dead’s Gorge, la gola dei Morti di Zakros. Oleandri rosa acceso, un gruppetto di vecchi platani lambiti dall’acqua di un torrente, frulli di colombi selvatici, grossi ragni, il belato di capre invisibili. Il letto umido della gola dei Morti brulica di vita. Sulle pareti strapiombanti gialle e arancio si aprono centinaia di nere cavità, grotte, forse antiche tombe. I ragazzi si sono svegliati, l’anima di Zakros ha sfiorato anche loro. Margherita attacca l’Odissea, Bernardo le mille pagine di It di Stephen King. Dormono e leggono, nuotano e leggono, passeggiano sui ciottoli chiari della spiaggia e la sera a cena raccontano qualcosa di sé.
Da Zakros abbiamo rivolto a ovest la prua della nostra Ford Fiesta, saltato a pié pari una buona metà della costa meridionale, per esplorare la zona di Matala, Festo e Agia Triada. Ieri pomeriggio tutti insieme dal monastero di Oditrigias siamo scesi al mare attraverso Agio Farango, la gola dei Santi eremiti. Tre quarti d’ora a piedi tra oleandri fioriti, olivi secolari e chiocciar di taccole che secondo la leggenda sono le anime volanti degli anacoreti che meditavano nelle grotte di questo canyon.
«Al tramonto le rovine del palazzo di festo offrono una delle più belle vedute del mondo»: sono le otto del mattino e mio padre è di nuovo qui, seduto con noi sugli scalini dell’arena da cui i minoici assistevano agli spettacoli e ai riti che si svolgevano nella corte del palazzo. Per evitare il caldo ci siamo alzati di buonora e, salutati da una coppia di upupe, ci godiamo il risveglio di Festo. Alle nostre spalle, appena velato di foschia, si alza la schiena possente dello Psiloritis, il monte Ida, dove Zeus fu allevato dalla ninfa Amaltea. Guardo di nuovo quelle surreali pennellate di bianco sotto la cima. Tra queste pietre fra poche ore ci saranno più di 40 gradi, possibile che quella sia neve?
A Pitsidia, pochi chilometri a sud di Festo, i ragazzi dormono profondamente. Li sveglieremo con calma per salire verso i villaggi tra le fertili colline della valle di Amari. I partigiani la chiamavano la Terra del loto, per la rassicurante bellezza che faceva dimenticare le privazioni e i pericoli della guerra. Kouroutes, Forfouras, Monastiraki, Amari e finalmente Thronos: è sempre il mio libro a guidarmi, ma soprattutto un indirizzo e un nome che dalle sue pagine mi chiamano insistentemente. Vi arriviamo poco prima del tramonto, in tempo per lo spettacolo che alla taverna di Aravanes si ripete ogni sera da molti e molti anni. Il proprietario sta innaffiando i fiori sull’ampia terrazza, un palcoscenico dedicato alla Terra del loto e alla grande montagna che la protegge. Tra i due corni dello Psiloritis quelle pennellate bianche ora sono accese dall’ultimo sole. Arancio, rosa, un viola intenso sempre più freddo. In quel momento ci è venuta l’idea. Il proprietario si è voltato verso di noi e la sua barba bianca ha sorriso. Conosco quello sguardo ironico e profondo. Conosco anche il suo nome, ce l’ho in tasca da molti giorni: Lambros Papoutzakis, il genius loci di questa valle, il regalo dello Scalino d’oro. Sarà lui, dopo averci sistemato in una bella camera panoramica e fatto assaggiare i prodotti della sua terra, a prepararci per l’incontro con il suo Psiloritis. Ci darà un biglietto in greco da lasciare nel santuario sulla cima e le indicazioni per trovare il sentiero.
Partiamo prima dell’alba e in tre ore di salita, mentre alle nostre spalle sorgono dal mare le coste di Agios Pavlos e Triopetra, tocchiamo con mano la neve ghiacciata di Zeus. C’è un topolino di montagna ad aspettarci sotto l’aquila a due teste della bandiera ortodossa greca, gli offriamo un pezzetto di formaggio.
Un cerchio del viaggio si è chiuso. La famiglia speciale è tornata sulla strada, ma la Ford Fiesta è più silenziosa del solito. Ai ragazzi Lambros non è piaciuto. Ieri mattina, quando si è accorto che lasciavano nel piatto quasi metà della colazione, ha scosso la testa e gliel’ha in parte riproposta a pranzo, insistendo affinché non sprecassero quello che lui aveva coltivato e cucinato per loro. E questo li ha molto infastiditi. Ma non basta. Paradossalmente la Terra del loto ha liberato le tensioni sotterranee. E come reazione, il sonnecchiare «iPodico» di Bernardo e Margherita si è trasformato in noia. Noia? Com’è possibile annoiarsi in viaggio?
Le lunghe spiagge deserte di Triopetra; lo shottino di raki dal burbero oste di Sougia; la gola di Anidri e la spiaggia dei nudisti; la fuga da Elafonissi (un paradiso caribico ridotto alla caricatura di se stesso); la pace ventosa di Moni Hrisoskalitissas (il monastero dello Scalino d’oro!); i vicoli e le calli della veneziana Hania; la grotta dell’orso sacro ad Artemide; il fiordo di Katholikò. Noia. Noia. Noia. I ragazzi sono diventati impermeabili al viaggio. Tutto quello che vedono sembra scivolargli addosso senza emozioni.
Forse è tempo che viaggino per conto loro. Che combattano la noia scegliendo e rischiando in prima persona.
«Chi fa, falla» dice un proverbio popolare. Ci abbiamo provato. Eppure. Chissà, forse un giorno si ricorderanno di quella banana sotto i pini di Cnosso; di Argiro, accogliente e preziosa come il suo nome che significa argento; del timo fiorito di Zakros e di quei versi raccapriccianti, quelle grida selvagge di sfida e di scherno, con cui un pastore chiamava le sue capre da un lato all’altro di un canyon a picco sul mare. Di sicuro so che non si dimenticheranno dei gol di Balotelli contro la Germania e dell’esultanza di albanesi e greci nella piazza di Hania, a pochi metri dal mare. E di sicuro so che la barba del vecchio Lambros si ricorderà di noi: una coppia di intrepidi montanari mediterranei, una graziosa Margherita dal sorriso disarmante e dal very nice name e un bel ragazzo allampanato dallo sguardo furbo e imprevedibile.