Grado, canne al vento

Gianluca BaronchelliGianluca BaronchelliGianluca BaronchelliGianluca BaronchelliGianluca BaronchelliGianluca BaronchelliGianluca BaronchelliGianluca Baronchelli

Dalla riqualificazione dei vecchi casoni dei pescatori è nato il primo albergo diffuso della laguna. Siamo andati a scoprire il lato nascosto del noto centro balneare: un mondo a parte fatto di labirinti d’acqua, silenzio e incontri a sorpresa. Come la più lunga pista ciclabile lagunare d'Europa.

I luoghi perduti hanno bisogno di tenerezza. E di cautela. Bisogna approcciarli con rispetto, abbracciandone allo stesso modo bellezza e disagi. Qui, nella laguna dove «sembra di essere fermi in un’eternità che imprime al passo la cadenza degli dei» (Giovanni Comisso). Qui, dove il sole smagliante di Grado si placa nelle pallide e pigre acque lagunari sulle quali risuonano lontani il pianto dei gabbiani e il rantolo della risacca, non c’è nulla di eclatante. Queste sono geografie dimenticate, aree dalla bellezza dimessa e silenziosa. Una cultura d’acqua fatta di piccole storie senza storia, saperi e sapori senza tempo. Una sorta di non paesaggio, un grande vuoto. Terre apparentemente monotone e prive di significato storico, bidimensionali, non plastiche, di difficile lettura, che acquistano più facilmente senso viste dall’alto, rivelando un territorio denso, dotato di grande personalità, quasi un iperpaesaggio, nato dalla volontà dall’uomo e dal capriccio della corrente. 

La laguna è qualcosa di più. Un mondo a parte, sospeso, semplice, moltiplicato all’infinito dallo specchio delle acque opache e pesanti. Un mondo doppio intriso di acqua e fango, vento e luce, verde e blu, silenzi e richiami, dove ognuno riesce a ritagliarsi, o ritrovare, una propria dimensione. Un labirinto d’acqua che sembra non avere un prima e un dopo, ma solo un qui e un oggi. 

Alghe di seta, canne ondeggianti, frammenti di vita intravisti e subito lasciati: barche, reti, casoni, pescatori, beccacce, madonnine solitarie appollaiate sulle bricolle, approdi incerti. La vita viene dalla laguna, gli incontri dalla laguna. Sulle sue acque e dalle sue acque sono nati valli da pesca e piccoli commerci. Sulle sue sponde si sono dispersi casoni ed esistenze calcinati dalla canicola e induriti dalla nebbia. Presenza forte in un paesaggio sempre uguale e sempre diverso, la laguna ha dato ai graisani de palu un senso di appartenenza. Li ha ancorati a un territorio, dando loro un’identità in questa ubriacatura di acqua e piante, piante e acqua. E cielo, tanto cielo, dove la laguna che sfilaccia la terra e la piega alla sua cieca orizzontalità si perde, si ritrova, si perde ancora. Si contrae in piccole vene azzurre, si frantuma in mille rigagnoli fangosi, si acquatta in anse raccolte, respira in larghe distese. Si riempie di isolotti, si svuota di acqua. Si riempie di acqua e si svuota di vita. Vuoto e pieno, lavoro e attese: reti da riparare, argini da rinsaldare, cavane da ripulire, e tante ore di silenziose solitudini.

Dalla consapevolezza di questo patrimonio unico è nato il primo albergo diffuso in un ambiente lagunare: 56 posti letto ricavati su cinque isole. Su un paesaggio immoto e arcaico, «Mitico perché realistico e realistico perché mitico», come scriveva Pier Paolo Pasolini, che girò qui alcune scene della Medea con Maria Callas, si è innestato un progetto dinamico e avanzato e i casoni, da simboli di povertà, sono divenuti emblemi di scelte turistiche consapevoli, non invasive e coerenti con l’ambiente. Casoni per vivere la laguna, le sue luci, i suoi umori. E ritrovare quella natura tutelata nell’ampia valle Cavanata, zona umida di valore internazionale per le 271 specie di migratori che vi nidificano, come nella riserva della foce dell’Isonzo, che tutela i 15 km finali del fiume. Casoni per cimentarsi con la pesca a mano delle vongole, un tempo praticata dalle donne. Ma anche, seguendo le indicazioni della nuova carta batimetrica della laguna (la precedente era del 1966), seguire l’esortazione di Claudio Magris che invita a «un lento vagabondare senza meta»: camminare durante le basse maree fra sabbia e melma. È il wadlopen, praticato, anche con l’ausilio di guide, sul bagnasciuga in alcune zone dei Paesi Bassi, Germania del Nord e Danimarca.

Non è la prima volta che queste zone sono all’avanguardia nel campo turistico. Grado stessa, nata in epoca romana e sviluppatasi nel 452 con l’arrivo dagli aquileiesi in fuga dagli Unni di Attila fra la laguna, la foce dell’Isonzo e l’Adriatico, grazie alla scelta nel 1873 del medico Giuseppe Barellai di farne la sede della sua colonia per bambini scrofolosi, nel 1892 divenne per decreto stazione di cura e soggiorno dell’impero austroungarico, con tanto di istituzione della prima azienda di promozione turistica. Da allora le onde opache e pesanti di fatica della laguna cominciarono a rotolare leggere e gioiose sulla lunghissima spiaggia gradese (che quest’estate ha innalzato per il 22° anno consecutivo la Bandiera Blu). Spiaggia che si andava popolando di pensioni e di hotel. 

Agli inizi del Novecento Grado era già una località alla moda che attirava sovrani, intellettuali come Sigmund Freud e Luigi Pirandello, artisti della secessione viennese come Josef Maria Auchentaller e Otto Wagner. Per tutti gli stessi riti: i bagni su zattere galleggianti, i tè danzanti alle cinque sulla terrazza del pontile. Un mondo scintillante che nulla aveva a che fare con la dura vita dei circa 1.300 abitanti della laguna, ben illustrata nelle foto dell’archivio Marocco, e che tornavano sulla terraferma per le feste comandate, come la processione di barche che a luglio celebravano il Perdòn, accompagnando la statua della Vergine custodita nel Duomo, schiacciato dal suo enorme angelo segnavento, al santuario dell’isola di Barbana. Molti anni sono passati, Grado ha cambiato volto, ma conserva il suo cuore antico di impianto tardo-romano racchiuso dalle mura del castrum, con i suoi preziosi edifici paleocristiani: S. Eufemia, S. Maria delle Grazie, il battistero del VI secolo. Un rione di calli e campielli, le stesse ricordate dal poeta Biagio Marin, nel 1928: «...dappertutto biancheria e cenci e stracci a confondere il bigio delle case, e movimentare con il loro sbandieramento, la perplessità dei secoli».  Il castrum, il porto, dove le acque pigre mormorano contro le barche palleggiate dal vento. Quel vento che continua a impastare sogni e fango nel magnifico nulla della laguna.

Fotografie di: Gianluca Baronchelli,Maurizio Fabbro
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