di Clelia Arduini | Fotografie di: Nadia Shira Cohen
In Alta Tuscia a piedi, in bici o in sella sulle tracce del “bandito” Domenico Tiburzi e della sua banda, che dominava la regione a fine Ottocento. Tra grotte, rovine, chiese rupestri, eremi, riserve naturali e minuscoli bellissimi borghi. A un passo da Roma e con il Lago di Bolsena sempre sullo sfondo.
Mani in alto. Per coprirsi dal sole e vedere meglio davanti. Un passo dopo l’altro sul sentiero che si srotola come un nastro sul crinale di una collina, oltre è già Toscana, qui ancora Lazio. Ecco una discesa poi una salita. Davanti è il verde maestoso, dietro un fruscio di creature invisibili. Cerri, carpini e aceri segnano l’ingresso nel folto bosco, il sentiero si restringe, la luce scompare. È la riserva naturale della Selva del Lamone, un intricato connubio di forze naturali, pietre e massi si accatasta sotto i fusti testimoniando che una volta c’erano lava e fuoco. La macchia per eccellenza, il rifugio ideale di un bandito quale Domenico Tiburzi, il livellatore della Maremma, che impose qui la sua legge dal 1872 al 1896 nei territori della Bassa Toscana e dell’Alto Lazio.
Il bosco è la parte più inquietante del Sentiero dei briganti, un itinerario che si snoda in provincia di Viterbo, tra Acquapendente e Montalto di Castro, per oltre 90 chilometri proprio nel territorio di azione dei banditi della Tuscia. Questa zona segnava il confine meridionale, prima del granducato di Toscana e poi del regno d’Italia, con lo Stato pontificio ed era un ambiente ideale per la sopravvivenza dei banditi, vista l’inaccessibilità dei luoghi. I disgraziati, nascosti nella fitta boscaglia, potevano sfuggire alle ricerche eclissandosi al di qua o al di là del confine. In particolare Tiburzi, detto Domenichino per la sua bassa statura, visse nella macchia per oltre vent’anni, diventando il re del Lamone.
Il percorso, che è preferibile affrontare a piedi, a cavallo o in mountain-bike, tocca due riserve naturali regionali, Monte Rufeno e Selva del Lamone, l’oasi del Wwf di Vulci, i laghi di Bolsena e Mezzano, i fiumi Paglia e Fiora. E decine di aree archeologiche, chiese rupestri, eremi, romitori, grotte e cavità sparsi ovunque come semi, moltiplicando la bellezza di minuscoli borghi come Proceno, Acquapendente, Onano, Grotte di Castro, Gradoli, Latera, Farnese, Ischia di Castro, Valentano: sentinelle svettanti da rupi e rocce di tufo a guardia delle forre, ciascuna con una torre, un castello, una famiglia nobile da ricordare, una storia da raccontare. Al sentiero si accede da punti diversi e lo si può percorrere facilmente grazie alle frecce direzionali poste agli incroci con altre strade e a una serie di pannelli informativi che narrano la storia dei luoghi e dei delitti commessi dai briganti.
Uno scalpiccìo tra le fitte fratte richiama l’attenzione, forse è un gatto selvatico, forse un capriolo. Più avanti ci sono alcune capanne di legno e pietre usate dai carbonai che qui venivano dalla Toscana. Poco dopo compare la via cava, una profonda gola artificiale tagliata nel tufo. È una delle tante cavità frequentate dall’uomo sin del paleolitico cui si aggiungono abitati rupestri e romitori ricavati nelle ripide pareti tufacee. Dimore di monaci in fu ga dalle tentazioni del mondo, che ospitarono di certo anche Domenichino e i suoi nelle notti più fredde d’inverno. Pare di vederli dietro le lingue del focolare, intabarrati, con il trombone infallibile, il cappello floscio e la barba lunga e nera, i coltellacci arrugginiti, gli stivali da buttero, la cartucciera in vita.
Il credo di Tiburzi era quello di difendere la giustizia anche contro la legge. Dopo l’unità d’Italia le convenzioni che avevano permesso ai contadini più poveri di sopravvivere, di andare per boschi a far legna, a pescare nei fiumi e a spigolare (cioè raccogliere le spighe cadute dopo la mietitura), furono abolite. Migliaia di contadini come Tiburzi si trovarono alla fame. Un giorno il giovane, sposato con due figli, perse la testa e ammazzò il guardiano che lo aveva multato mentre raccoglieva erba in un campo. La sua storia di brigante comincia da qui. Tra i nascondigli utilizzati da Domenichino e i suoi uomini, le tombe etrusche sparse nella zona di Vulci e le rovine della città rinascimentale di Castro, la Cartagine della Maremma, un cumulo di pietre avviluppate dal muschio.
All’inizio del sentiero un masso riporta una scritta: «Qui fu Castro», a ricordo della distruzione della città, capitale del ducato dei Farnese, per mano di Papa Innocenzo X che puniva così l’enorme indebitamento della famiglia, decretandone l’oblio.
Con una piccola deviazione si raggiunge Cellere, borgo natale di Tiburzi, dove ha sede il Museo del brigantaggio, quindi il sentiero piega lungo i pendii della Maremma, una volta terra di malaria, oggi tripudio di ulivi. L’olio di Canino è una gloria nazionale, verrebbe da berlo tanto è invitante il suo colore verde chiaro. Chiaro come il lago di Bolsena che Domenichino, ormai vecchio, guardava ammaliato dall’alto di una grotta a strapiombo sull’acqua. Dal pertugio vedeva Capodimonte avvolta dai vapori e ne seguiva il profilo con un dito pensando forse alla moglie morta giovane, tanti anni prima. Il regno di Tiburzi durò a lungo proprio grazie agli equilibri che il bandito era riuscito a stabilire con i potenti locali cui garantiva protezione dietro un regolare compenso. Ma anche questa storia ha una fine. «Si dice che una sera alle Forane/mentre felice con gli amici sta…/scatta l’agguato e non si salverà./Così nel camposanto fu portato…/Per metà nel terreno consacrato/per metà nell’eterna perdizione...». Questa è la fine del brigante cantata alla maniera dei cantastorie da Silvana Pampanini nel film Tiburzi di Paolo Benvenuti del 1996 e dedicato appunto al re del Lamone. Fu ammazzato nei pressi di Capalbio nell’ottobre del 1896. La foto del suo corpo legato a una colonna con armi e fazzoletto al collo chiude il Sentiero dei briganti: una luce da tenere viva sulla bellezza inquietante di un territorio di confine che a ogni tramonto sembrano rivivere nelle tane dove non c’è luna.