di Tino Mantarro | Fotografie di: Andrea Forlani
Neanche alla seconda visita riesco a decidere che cosa sia di Belgrado che mi affascina. Che non sia bella è certo. Trasandata e malmessa, senza particolari
monumenti da visitare, riesce lo stesso a essere attraente: come se fosse il nome, o l'aria che si respira ad avere qualcosa di speciale. O forse è che Belgrado è uno di quei posti non scontati. Non è Vienna, o Lubiana, tanto ordinate e ordinarie che dopo ogni immagine sai già come sarà la successiva. Qui dopo un palazzo improbabile ne trovi un altro ancora peggio, il disordine è sovrano e le vite degli altri che osservi muoversi lo sembrano altrettanto. Ecco, forse è quel susseguirsi di scene inaspettate e surreali che mi affascina di Belgrado. E l'impressione che tutto possa accadere. E spesso, almeno sotto l'aspetto visivo, accade.
Passata Nis l'autostrada termina con un restringimento. Sembrerebbero semplici lavori in corso. Invece cento metri e non c'è più nulla. Finalmente finisce il paesaggio anestetizzato visto a cento all'ora e si va davvero sulla strada, più vicino alla gente. Nel giro di pochi chilometri ci si imbatte: in un pastore con pecore e cane; in una doganiera serba che aspetta un bus che non passa, in aree di servizio dismesse, fabbriche abbandonate e paesi che hanno visto di certo tempi migliori e più vivi. A Cykobo c'è lo scheletro di una fabbrica che sembra uguale a quelle che si disegnavano da bambini, o che si vedono nei quadri di Sironi. La ciminiera alta a lato, il tetto a guglie, le porte di ingresso gigantesche, dei finestroni sfondati in alto. Accanto, a prendere il fresco sotto un albero di prugne, una signora anziana col figlio adulto che sono contenti di salutare qualcuno che finalmente passa.
Alla stazione due ferrovieri che sembrano tutto fuorché indaffarati, danno indicazioni in inglese e accettano anche di farsi fotografare con la bandiera del Touring. Già, perché abbiamo deciso che in ogni luogo che ci sembra bello cercheremo dei nuovi testimonial disposti a farsi fotografare con la nostra bandiera. Non tutti accettano. In una Benziska Stanica, un'area di servizio poco prima due "babas", due nonnette con la sporta della spesa, non hanno ceduto alle lusinghe di Michele che cercava di convincerle in esperanto serbo.
M. "Photo, da?"
"Ne".
M. "Ne, photo, why?
"Ne",
M. "Charity, bambini. Italia. Photo?
"Ne".
Ma c'è sempre il benzinaio che in cambio di dieci euro, dice, si farebbe fotografare. Peccato che non abbia per nulla una faccia interessante, che meriti uno scatto. Così continuiamo a inoltrarci nel paesaggio. Le montagne qua sono finalmente balcaniche: coperte di verde e striate di rocce bianche. Lungo il fiume scorre la ferrovia: il binario unico della Belgrado-Istanbul. Lo stesso che percorreva l'Orient Express di Agata Christie e Graham Greene. Oggi sembra lo percorrano solo treni merci lenti e pesanti, che sferragliano in salita, svogliati e rumorosi. Gli autobus rossi della Nis Express raccolgono passeggeri a ogni angolo della strada, in fermate inventate che solo loro riconoscono come tali. Di tanto in tanto scheletri di Motel ricordano l'epoca in cui le auto, saranno state tutte Yugo o Zastva, andava più piano e un viaggio era una misteriosa avventura che si sapeva quando aveva inizio e non quando e dove finiva. Oggi sono state sostituite da hotel che offrono stanze con doccia a 13 euro a notte. La tentazione di vedere come diavolo siano messe è forte. Ma è una curiosità che rimarrà tale. Fortunatamente abbiamo il nostro accogliente Best Western che ci attende oltre confine, a Sofia. E non ci va di barattarlo con una di queste avventurose stamberghe. Viaggiatori borghesi, direbbe qualche amico? No. E' che lì ci trattano bene, le stanze sono pulite e la doccia è fresca. E in prospettiva, sapendo quel che ci aspetta nei vari -stan, ci piace farci viziare.
Non ci trattano altrettanto bene alla frontiera tra Serbia e Bulgaria. La coda questa volta non c'è. Ma il doganiere non ne vuole sapere di timbrare i nostri passaporti: come facciamo altrimenti a testimoniare a noi stessi che l'abbiamo davvero fatto questo viaggio se non ci sono timbri? Le parole passano, i ricordi svaniscono, le foto scolorano, i timbri no. Restano. Ma niente. Per il funzionario bulgaro siamo "Europeische" e dunque niente timbro. Però ci indica il collega cui chiedere la vignetta, che serve per circolare in Bulgaria.
"Koko?"
"5 euro"
"Where?
"There" e indica un altro gabbiotto dove acquistarla.
Al gabbiotto l'addetto in panciolle dice che "no, non qui. più avanti. selle".
Alla Shell dice che "più avanti, due chilometri".
Due chilometri più avanti aggiunge "finite, sei chilometri più avanti".
Sei chilometri più avanti sostiene che "ancora avanti, gasoline".
Intanto sul ciglio della strada incontriamo due pattuglie della Polizia in Land Rover ferme a vigilare su chi passa. Si ha come il sospetto che faccian comunella con i venditori di vignette e la multa per non averla sia garantita.
Alla fine in un paesello che si chiama come un supererore, Dragoman, troviamo la sospirata vignetta. Che però qui costa sei euro invece che cinque. "Qui commission" spiegano. Che quell'euro invece che allo stato bulgaro vada diviso tra tutti loro? Quando si dice inflazione chilometrica.
Poco male, perché intanto il paesaggio migliora. Si fa sera e la terra nera, dissodata di fresco risalta nella luce calda. Per terra quel che resta del grano raccolto da poco riluce. Di tanto in tanto altre fabbriche abbandonate, altri paesini ordinati e vuoti, altre pompe di benzina trascurate dalla modernità.
Poi, all'improvviso, annunciata solo da un gigantesco ipermercato Metro, ecco Sofia.