di Tino Mantarro | Fotografie di: Andrea Forlani
Ci sono delle volte, quando viaggi su strada, che attraversi terre che non avevi mai pensato e finisci spiaggiato a dormire in cittadine che non sai neanche dove siano. Oggi è una di quelle volte.
Siamo partiti davvero di buon ora da Safranbolu, complice il muezzin della moschea accanto alla casa ottomana che ci faceva da albergo, e complice anche il ragazzo dell'albergo stesso che proprio non ne voleva sapere di farci la colazione alle sei e mezza e neanche alle sette. Solo alle sette e mezza: troppo tardi.
Così dopo aver trovato un gruppetto di arzille coreane per la foto di rito con bandiera (del touring, coreana e turca: tripletta) ci siamo rimessi in moto senza un destinazione precisa, ma con un obiettivo: fare più strada possibile. Il che equivale a vedere l'Anatolia come il protagonista di quella canzone che guardava il mondo da un oblò e si annoiava un po'. Noi non ci annoiamo, ma di tanto in tanto ci addormentiamo, questo sì. E nel farlo, inconsciamente, santifichiamo la nostra macchina che è tanto grossa da farci riposare comodi, comodi mentre fuori sfilano colline su colline, campi di grano e cave d'argilla, boschi verdi e girasoli fino a dove si riesce a vedere. E neanche le strade piene di lavori, cambi di corsia e tratti di sterrato riescono a svegliarci. Si va che è una meraviglia, mentre l'asfalto si srotola davanti a noi come una di quelle girelle di liquirizia che vendevano negli oratori, un tempo.
Viaggiando così le soste sono obbligate e contemplano i bisogni fondamentali: prendere il caffè, andare in bagno, fare delle fotografie e fare rifornimento. Spesso tutte e quattro le cose insieme. Mangiare invece è un altro discorso. E' ancora Ramadan, ma se a Istanbul e nel resto della Turchia non è un grande problema procurarsi qualcosa da mettere infedelmente sotto i denti, oggi nella parte dell'Anatolia che stavamo attraversando lo è stato. All'ora di pranzo nessuno spiedo di kebab girava, nessuna insalata era pronta e nessun ristorante era aperto per noi. Solo dei panifici vendevano le pide, che sono semplici pagnotte e non pizze come speravamo, e in nessun altro posto di Vezirkopru si poteva mangiare qualcosa. Così con fare colpevole non è rimasto altro da fare che comprare del formaggio e andare a mangiare pane e formaggio in un campo di grano a qualche chilometro di distanza dal centro. Avendo cura di non farsi vedere da nessuno - meglio evitare di urtare la sensibilità delle persone. Che altrimenti si mettono a urlare come la signora ieri sera, quella che se l'è presa per la birra che stavamo bevendo nel ristorante di fronte al suo (o perché non eravamo nel suo?).
Per il resto abbiamo macinato chilometri su chilometri, osservato l'operosità dei turchi che stanno rifacendo tutte le strade, ammirato le bandiere con la mezzaluna più grandi che ci sia capitato di vedere (e non in un palazzo governativo, ma a un benzinaio) e siamo arrivati sul mar Nero che era quasi sera. E forse per questo ci è parso davvero nero e senza attrattiva. Ma forse erano fame e stanchezza: 600 chilometri di strade turche da affrontare tra i 50 e 90 all'ora hanno la capacità di far vedere nero quello che invece è blu. O anche azzurro. Domani sarà diverso, a Batumi, finalmente. Oggi a Giresun, una cittadina a metà strada tra il nulla e Trebisonda va così. Ma come dice Andrea Semplci: fin qui siamo arrivati. Mettiamo un segno sulla mappa e poi vediamo.