Giorno 7. Giresun (Turchia) - Batumi (Georgia)

Andrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea Forlani

Il mar Nero è davvero nero, almeno per i turchi. Questo è quello che abbiamo imparato oggi. In quasi quattrocento chilometri di costa, tra Giresun e la frontiera georgiana non ne abbiamo visto uno che fosse in spiaggia non dico a prendere il sole, ma almeno a bagnare i piedi in acqua in questa giornata umida e calda. Invece niente. Il padrone dell'albergo di Giresun dice che è per via del Ramadan. E in effetti non potendo bere ha senso. Però a Trebisonda, quando ci fermiamo per pranzo, i ristoranti sono per metà aperti e chi mangia non sono certo in stranieri in cerca di una direzione. Per cui ci deve essere qualche cosa d’altro. Anche perché le città non belle che attraversiamo sembrano non avere lo sguardo rivolto al mare, ma piuttosto all'interno. I lungomare, che qui chiamano bulevard, devono essere una costruzione piuttosto recente. A separare poi le abitazioni dalle spiagge c'è anche una bella superstrada a quattro corsie,che fa lo stesso effetto della sopraelevata a Genova: solo che questa è rasoterra. Così in quasi quattrocento chilometri non si incontrano paesini di pescatori che invogliano alla sosta, ma cittadelle più o meno grandi fatte di palazzi alti e mal rifiniti costruiti, almeno pare, di recente. E quando si incontra un porticciolo è un ricettacolo di pescherecci e piccoli cargo che attendono un carico e nel frattempo arrugginiscono.

Solo Trebisonda appare diversa, non tanto perché protesa sul mare ma perché il centro storico è abbastanza decente e permette di fare incontri interessanti. Qui capiamo che sapere la lingua del luogo, almeno in Turchia, può anche non essere necessario: basta sapere qualcosa di calcio. Dovevamo intuirlo, visto che la seconda cosa che noti in ogni città turca che attraversi è lo stadio (la prima sono le moschee). Per strada un anziano signore ci avverte che oggi si gioca Liverpool-Trazbonspor, la squadra della città. Al parcheggio il poliziotto di guardia al consolato russo si lancia in una animata discussione fatta di gesti e pacche sulle spalle e strette di mano che si può riassumere così: "lo scorso anno il Trazbonspor ha battuto l'Inter uno a zero a Milano, tiè" . L'unico che non parla di calcio è il barbiere, lui non parla proprio. Rade con perizia e mano ferma, cosparge tutto di alcool per far vedere che ci tiene all'igiene e non manca di infilarti le dita nelle orecchie perché così si usa da queste parti. Non parla di calcio neanche il signore che al bazar grazie a un disegno di Michele ci aiuta a comprare un lucchetto e una catena per assicurare meglio le gomme sul tetto. Stiamo per entrare in quel che resta dell'Unione Sovietica. Conviene assicurasi doppiamente.

Un assaggio di quel che fu e di quel che ci aspetta da ora in avanti lo abbiamo subito alla frontiera. Tre ore di coda in riva al mare per far passare cento macchine. Meno male che il posto è alquanto scenografico (accanto alla spiaggia e a ridosso delle montagne, con una moschea illuminata al neon e un palazzo a forma di lettera dell'alfabeto georgiano a chiudere il paesaggio) e la compagnia non manca. Una Land Rover piena di adesivi e taniche sul tetto (oltre che un fotografo seduto sulle gomme) suscita l'interesse di tutta la fila. Gli ottimisti ci fanno capire che ci sarà da aspettare almeno "quattro ore". Per i turchi è colpa dei georgiani. Per i georgiani dei turchi che controllano troppo tutti i non turchi. Sarà.

Nell'attesa sperimentiamo la famosa ospitalità georgiana. I ragazzi della macchina che ci precede, un Mercedes targato Essen (Germania) ci offrono delle pannocchie bollite. Vivono a Dusseldorf e viaggiano da quasi quattro giorni, tra duecento chilometri saranno a casa, vicino al confine non riconosciuto con l'Abkhazia. E' la prima volta in quattro anni: se ne sono andati sei anni fa, quando è scoppiata la guerra con i russi e l'Abkhazia e l'Ossezia del sud si sono staccate dal resto del Paese. Altri ci regalano dell'uva, altri solo una chiacchiera in una lingua esperantesca, mentre un signore piuttosto molesto vorrebbe compare le taniche sul tetto. Michele ha anche il tempo di provare di persona quanto nero sia il mar Nero e fa pure il bagno. Annotta mentre il muezzin avverte che si può rompere il digiuno, non è peccato. Lo faremmo volentieri, ma abbiamo speso le ultime lire turche per fare rifornimento quindi aspetteremo tempi migliori. La Georgia, "il paese che io amo" come si legge sulla maglietta di un ragazzo, ci fa attendere.
Il richiamo del muezzin ha anche il potere di scuotere la fila che si velocizza incredibilmente. I turchi timbrano i passaporti senza fare domande, la giovane guardia di frontiera georgiana farebbe lo stesso se non fosse che non trova il nome del proprietario della macchina e "Via Bertelli" non corrisponde al nome sul passaporto. Ma almeno se la ride soddisfatta e cerca anche di conversare: "Italia bellissimo. Tajikistan, uuoott?".

Abbiamo perso tre ore. Anzi quattro: c'è un'ora di fuso. E noi, come un Philleas Fogg qualunque, non lo sapevamo. Sono le dieci di sera. Batumi prepara il kachapuri: arriviamo. 

 

Fotografie di: Andrea Forlani
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