di Clelia Arduini | Foto di Angelo Antolino
Arrivano da tutto il mondo per raccogliere gli agrumi più puri per la festa ebraica del Sukkot. In un panorama naturale, dal Pollino alle spiagge del Tirreno, che tenta di riscattare l’antico splendore dopo gli scempi di un recente passato
Mancano 50 giorni al viaggio, ma la valigia è pronta da un pezzo. Susan Flor, 86 anni, guarda il cielo di New York dove vive da sempre e pensa: “Qui è ancora freddo, là è già caldo”. La terra promessa si trova dove comincia o finisce la Calabria e la primavera è già estate. Susan vi si reca a luglio da 50 anni per comprare i frutti più belli. È la Riviera dei cedri, alto Tirreno cosentino che si colora di Basilicata; qui i minuscoli cedri iniziano a gonfiarsi, i fiori bianchi del mirto a schiudersi, le lingue di peperoncino ad accendersi.
Terra di alchimia, dove ottomila quintali di cedri sono prodotti in media ogni anno per la gioia dei commercianti ebrei che, come Susan Flor, vengono a sceglierli a uno a uno con i rabbini per la festa di sukkot. Terra di scherzi della natura dove la montagna, il Pollino e il suo parco nazionale, cerca invano di buttarsi a mare perché fiumi, pianori e corone di terrazze lo impediscono. Un gioco di forze geologiche che, tra insenature e strapiombi, rende il paesaggio sofferente e meraviglioso sotto lo sguardo attonito di paesi nati lì per un altro gioco, quello della storia, in bilico sulla costiera in cerca di un equilibrio sociale ed economico. Da secoli guardano il mare: una volta portatore di morte per mano saracena, poi foriero di promesse mai mantenute dagli industriali del Nord e dai politicanti di turno, quindi preda di un turismo delle seconde case che ha imbruttito il territorio. Oggi si tenta il salvataggio di quelle bellezze artistiche e naturali che, come il cedro, quasi per miracolo e per la caparbietà di chi ci crede, resistono all’inquinamento, agli abusi edilizi e alla lunga mano malavitosa.
Dal confine lucano la strada, tra erica, euforbia, lentisco e agavi, corre per circa tre chilometri ed ecco la Calabria prima con Tortora Marina poi con Praia a Mare, la “spiaggia”: 58 lidi su 6 chilometri di costa, una storia di scambi commerciali e di difesa contro “li turchi”, una torre di guardia che quella storia ricorda, una caverna sull’abitato con il santuario della Madonna della Grotta. Una volta lassù, lo sguardo corre sul golfo di Policastro dipinto ad acquerello, sulle scogliere come cime tempestose e su un isolotto a forma di balena: l’isola di Dino (vedi pag. 63). Ovunque spuntano macchie violacee, sono le bacche del mirto al centro di piccole produzioni di grappe, liquori, cioccolata, salumi e perfino pappardelle.
A tutela di questo comprensorio – danneggiato dai rifiuti tossici dell’azienda tessile Marlane-Marzotto, attiva fino al 2002 – sono stati lanciati dal Comune un concorso per riqualificare l’ambiente e la richiesta di inserire l’area in un monitoraggio ambientale curato dal ministero dell’Interno. «Un segnale importante per difendere una natura fragile – dice Francesco Di Giorno, presidente della Proloco – che ogni anno tra luglio e agosto richiama circa 50mila turisti».
La scena spetta ora a Scalea e alle sue due anime. Il bello è nel centro antico protetto da mura, tutto scalette e viuzze, abbarbicato su una collina con i ruderi del castello. Torre Talao, antico isolotto ora collegato alla terraferma, emerge venato d’azzurro con la torre aragonese che punta il mare e l’aroma di rosmarino, cappero e finocchio selvatico.
Il brutto è sulla costa. «È come se l’esistenza della malavita organizzata – dice il commissario prefettizio Massimo Mariani, socio Touring, chiamato l’anno scorso a ripristinare la legalità nell’amministrazione comunale – finisse per lasciare un’impronta di bruttezza nei territori in cui gravita. Occorre radunare la forza del bello, il senso civico, la voglia di riscatto di molti e il diffuso associazionismo, per combattere il brutto». Si riparte dal mare e dalla sua magia. Basta guardarlo mentre frigge di increspature sottili nella brezza marina appetitosa di fragranze che si spalmano nelle vie, come il sugo di alici, peperoncino e cedro inventato dai ristoratori scaleoti per condire i “rascatielli”, gnocchi a base di acqua e farina.
Il paese caro a Susan Flor è Santa Maria del Cedro. Una vocazione lunga ottant’anni che ha permesso agli agricoltori di far studiare i figli e migliorare le proprie condizioni. Grande è l’affetto per questo frutto tenuto in mano con dolcezza persino dal Bambino Gesù nel mosaico della parrocchiale.
Il cedro attecchisce solo qui e in altri terreni della riviera, specie sui greti dei fiumi dove la terra è “ligumusa”, quasi impura perché piena di pietre, dando vita al “liscio diamante”. Il frutto rappresenta l’auspicio e il buon raccolto nel sukkot, la festa dei Tabernacoli celebrata quest’anno tra l’8 e il 15 ottobre (ma fuori Israele la festa, detta anche “delle capanne”, in realtà dura nove giorni): per questo commercianti e rabbini ortodossi, incaricati di acquistare il cedro calabrese definito il più puro di tutti, in luglio approdano qui, da Stati Uniti, Germania, Australia. E alla fine circa 30mila pezzi da 100 grammi, acquistati a 10 euro l’uno prendono il volo, in attesa di essere a loro volta rivenduti. Poco importa se la raccolta vera e propria si fa a novembre quando il frutto arriva a pesare anche un paio di chili.
«La produzione sfiorava i 90mila quintali negli anni Ottanta – dice Angelo Cava, presidente del neonato Consorzio europeo del cedro mediterraneo terre di Calabria che raduna circa un centinaio di produttori –, ma è andata via via diminuendo perché la terra è stata occupata dalle abitazioni, i giovani hanno preferito svolgere altri mestieri, la domanda è diminuita. Ora stiamo predisponendo nuove piantagioni e un disciplinare per tutelarne la qualità e sbarcare a Expo 2015 a Milano con le carte in regola».
I manicaretti che hanno il cedro tra gli ingredienti sono una pioggia: insalate, primi piatti, marmellate, canditi, mostaccioli, bevande, cremini, pannicelli con uva passa fasciati con la foglia cotta dei frutti «che furono delizia e viagra consolatore per l’ultimo D’Annunzio», come scrive Franco Galiano, presidente dell’Accademia internazionale del cedro, riferendosi al racconto del Vate La Leda senza cigno.
Altrettanto nutrita è la cascata di prodotti a base di peperoncino, ma la scena si sposta a Diamante che ne detiene il copyright. Il paese, con il lungomare a 25 metri dalle onde tra cui guizzano i polpi e l’isola di Cirella in lontananza con la torre di guardia e i limoneti, è decorato da 300 murales che lo hanno trasformato in un museo all’aperto. Qui tutto è pronto per la 22ª edizione del Festival internazionale del peperoncino, dal 10 al 14 settembre. Un’idea di Enzo Monaco, giornalista fondatore dell’Accademia nazionale del peperoncino, che propone una fiera mondiale con oltre 500 varietà di piante, mostre d’arte, film piccanti, convegni medici e spettacoli teatrali, tutto in onore dell’ortaggio. «L’anno scorso – tiene a sottolineare Monaco – sono arrivati 250mila visitatori. E quest’anno si dovrebbe replicare, visto che gli alberghi della riviera hanno già molte prenotazioni per quelle date». Intanto l’accademia impartisce lezioni sulla produzione di peperoncino ai giovani muniti di un pezzo di terra perché la terra non tradisce mai e può dare, di nuovo, occupazione.
Mancano 50 giorni al viaggio, ma Susan è già con il cuore in riviera, dove mangerà alici, accarezzerà i cedri, passeggerà tra le rocce con i piedi nell’acqua e il sole le scalderà il collo. No, non possiamo giocarci questa grande bellezza.