di Stefania di Pasquale | Fotografie di: Claudio Morelli
La meno conosciuta delle isole del Golfo di Napoli, Procida è spesso solo uno scalo sulla via di Ischia e Capri. Un'isola poco frequentata, ancorata a ritmi lenti, da scoprire poco a poco, meglio se conversando con qualcuno incontrato per caso per strada, avendo cura di portarsi come guida L'isola di Arturo, il capolavoro di Elsa Morante.
L’isola di Arturo, l’isola di Elsa Morante, è entrata a far parte dei luoghi della mia memoria letteraria il terzo anno di liceo. Sì, perché c’è una memoria per le cose viste e una per le cose scoperte attraverso la scrittura. Negli anni ho riletto il romanzo, e quindi posso dire di essere stata su quell’isola tante volte, ogni viaggio il conforto di ritrovare i vecchi amici e l’avventura di una nuova scoperta. Ma è esattamente così che posso descrivere le sensazioni che ho provato e che provo quando arrivo a Procida e quando la saluto allontanandomi.
Procida sembra adagiata sul mare. La sua silhouette ricorda una donna distesa su un triclinio romano. Sulla parte più alta, il piccolo borgo fortificato di Terra Murata dà l’impressione di poter scivolare da un momento all’altro. Da dietro, Ischia la sovrasta. È la meno conosciuta delle isole del Golfo di Napoli, tanto da essere per molti solo uno scalo sul percorso per raggiungerle. Il tabellone del traghetto che parte dal porto di Napoli (più lento dell’aliscafo, ma permette di viaggiare all’aperto, accompagnati dai gabbiani e delfini) recita: “Ischia” scritto in grande e sotto, con un carattere più piccolo, “via Procida”.
Il porto di Marina Grande accoglie i visitatori con le sue case basse, un susseguirsi di bianco, giallo e rosa, con qualche sprazzo di rosa salmone. Mostrano i segni del tempo ma non vi è traccia di degrado; sulle facciate archi e scale rampanti, elementi costanti in tutta l’isola. Qui l’atmosfera è ancora quella di Arturo: « …le case rustiche, e antiche di secoli, che appaiono severe e tristi, sebbene tinte di bei colori di conchiglia, rosa o cinereo…». Panni stesi, barche ormeggiate, viavai di motorini: il porto è il cuore pulsante della vita di Procida. Ci sono bar, ristoranti, negozi. Sui piccoli balconi c’è sempre qualche anziana che guarda immobile l’attracco e la partenza delle navi, unico spettacolo sempre identico, come identico è da sempre il suo punto di osservazione. Da lì i procidani hanno visto arrivare i pirati saraceni, i signori del feudalesimo, il re e anche gli inglesi. In epoca neoclassica le nobili famiglie dei Di Costanzo, De Jorio, Scotti e Manzi scelsero Procida come luogo prediletto di villeggiatura, un momento mondano che riecheggia ancora nei nomi e nella struttura dei palazzi che spuntano qua e là all’Olmo, alle Centane e su via Vittorio Emanuele, arteria principale dell’isola, dove si trovano tutti i servizi, e dove si concentra il traffico di auto e scooter. Qui, al civico 225, c’era la Pensione Eldorado, nei cui giardini Elsa Morante scrisse il libro. Oggi il meraviglioso limoneto che si estende fino al mare, pur essendo intatto, è tristemente diviso tra una pizzeria e uno yachting club.
L’isola ha una superficie di 3,7 chilometri quadrati e il suo perimetro è di circa 16 chilometri: per girarla basta un giorno. Per godersi le sue sorprese un po’ di più. Muoversi su un’isola così piccola, con una strada maestra che ne fa il periplo e che per un lungo tratto è a senso unico, non è difficile: a piedi, in taxi (un po’ caro), con i mezzi pubblici (dimenticate i tabelloni, le fermate sono agli angoli, davanti ai negozi, agli incroci, basta chiedere) oppure in scooter, che si può noleggiare al porto.
«La mia isola ha straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali…». Girare per Procida è come percorrere un lungo tunnel scoperto: muri alti anche cinque metri stringono i vicoli, a volte larghi appena un metro e mezzo, mentre dalla cima spuntano le fronde di ulivi, aranci, pini marittimi e limoni: giardini lussureggianti proibiti alla vista che si svelano non appena ci si affaccia da un terrazzo o si sale in cima a un viottolo.
Alto e basso, sotto e sopra, su e giù: ecco le parole d’ordine, le coordinate di un viaggio che finisce e comincia continuamente ed è una continua sorpresa. I nomi delle strade non ci sono quasi mai. Solo una è sempre presente, anche nelle indicazioni stradali: è via Faro, un vicolo stretto e lungo, un alternarsi di rosa e bianco, macchie di verde all’improvviso dall’alto, l’azzurro in fondo. La bellezza di questa via merita di essere celebrata, al contrario del piccolo faro intorno a cui tutto è abbandonato all’incuria. Per gli amanti degli scogli, sono innumerevoli le discese nascoste, solitarie e silenziose, verso un mare limpido e cristallino. Ogni tanto, in qualche incrocio sperduto, c’è un uomo seduto. Un saluto cortese (Procida è un’isola gentile) e poi silenzio.
Di fronte a Marina di Chiaiolella, centro balneare dell’isola, c’è il verdeggiante isolotto di Vivara, da anni al centro di pasticci burocratici e incredibili errori, come il ponte che lo collega alla terraferma, ricostruito senza rispettare i criteri di sicurezza.
«…fra quelle rocce torreggianti, che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani… Là nei giorni quieti, il mare è tenero e fresco e si posa sulla riva come una rugiada». Le spiagge di Chiaia, Ciraccio e Pozzo Vecchio, lingue di nero arenile, raccontano l’origine flegrea di Procida, nata dal fuoco vulcanico. Ma è alla Corricella, borgo dei pescatori su cui troneggia la chiesa della Madonna delle Grazie, che la geologia lascia il posto alla geografia e si comprende la natura autenticamente mediterranea dell’isola: i gabbiani che scendono in picchiata sul mare, le case aggrappate le une alle altre – centinaia di occhi affacciati sulla riva – un’esplosione di rosa, giallo e bianco, le scale a dorso di giraffa. Il cinema, che spesso ha scelto Procida come location (Il postino, Il talento di Mr. Ripley), ha amato molto questo borgo: dal belvedere lungo la strada che porta al Castello lo sguardo lo abbraccia tutto e giunge fino a Punta Pizzaco e Punta Solchiaro.
Poi la strada si inerpica verso il punto più alto dell’isola, i 91 metri sul livello del mare di Terra Murata. « …Ricordo di avere, in quei tempi, oltrepassato le porte della cittadella, e percorso i suoi quartieri solitari…». Qui c’è la storia di Procida e dei suoi abitanti, nati su un’isola divisa in terre. Nel XVI secolo il cardinale Innico D’Avalos fortificò l’allora Terra Casata con una cinta muraria e vi costruì il suo palazzo (oggi detto Castello) che fu poi anche carcere, chiuso nel 1988. Fu solo a partire dal Settecento che i procidani divennero gente di mare e diedero vita alla tradizione dei maestri d’ascia che rese grande la fama della sua marineria. Terra e mare a Procida hanno molte storie da raccontare, storie di fede religiosa (le chiese sono ben nove) ma anche di un sentimento arcaico che crede nell’immutabilità come unica chiave di salvezza. Le processioni e gli antichi riti, così come il vecchio pescatore che ogni giorno cuce le reti, ne sono un meraviglioso riassunto.