di Gianmario Marras | Fotografie di: Gianmario Marras
Da capo Frasca alle dune di Porto Pino, itinerario nel sudovest della Sardegna, tra il Parco geominerario storico e ambientale – tutelato dall'Unesco come Patrimonio culturale dell'umanità – e le spiagge di sabbia candida. Dove il fascino dell'archeologia industriale e il silenzio della natura cercano di attirare i turisti più curiosi.
«Guarda laggiù», mi dice Ivan, «vedi quei punti in movimento?». Prendo il binocolo ed ecco delinearsi chiaramente le sagome di un branco di cervi: tre o quattro coppie con due piccoli, sbucate dalla vegetazione fitta per brucare nella radura. È quasi incredibile: non sono a bordo di un fuoristrada dopo ore di sterrata, ma seduto al tavolo di un chiosco del villaggio di Montevecchio. Siamo nel Sudovest della Sardegna, dove tra Costa Verde, Iglesiente e Sulcis, anno per anno crescono d’importanza le mete alternative per le tribù di turisti che scelgono l’isola per vacanze all’insegna del contatto con la natura, del relax e della calma.
«Non è raro» aggiunge Ivan, guida turistica con una profonda conoscenza di questo territorio, «che i cervi arrivino fino alla piazza», fra le case per lo più disabitate del paese. Un fatto ancora più straordinario se si pensa che sessant’anni orsono in questa zona erano attivi gli impianti minerari allora più grandi d’Europa, con migliaia di minatori, provenienti da tutta Italia, al lavoro per estrarre piombo e zinco.
Gli edifici minerari si facevano notare per lo stile architettonico, che andava dall’art nouveau al neogotico. La prosperità giunse all’apice negli anni Cinquanta, quando a Funtanazza si costruì una colonia marina per i figli dei minatori con la piscina olimpionica più grande d’Italia. Poi giunsero il declino e la chiusura dell’ultimo pozzo nel 1991.
I villaggi si spopolarono come quelli del Far West americano, i palazzi caddero in rovina, le laverie e gli edifici minerari furono spogliati di tutto, i macchinari e le strutture corrosi dalla ruggine. Fino al 1998, quando l’Unesco ne sancì il valore, assieme a quello di altri sette comprensori minerari della Sardegna, facendone il primo Parco geominerario storico e ambientale al mondo, Patrimonio culturale dell’umanità.
È stata questa la sfida: unire il fascino dell’archeologia industriale, dato dai resti delle vecchie miniere, con quello della natura che lentamente riprende il suo corso, copre, nasconde i segni dell’uomo e attira per i suoi spazi, i silenzi, le spiagge, ma anche per gli incontri con i locali. Una sfida solo parzialmente riuscita. La miniera è ancora vista come luogo di fatica e di dolore e poco si addice all’attenzione, comunque un po’ frivola, dei vacanzieri più curiosi.
«Si dovette lottare, arrivando a occupare il pozzo Sella per un anno», racconta ancora Ivan, «per arrivare all’istituzione ufficiale del Parco nel 2001, che però si è rivelata vera fino a ora solo in parte, perché...» e qui continua come un fiume in piena «... sai qual è l’ultima novità? Che l’Unesco ha inviato qualche mese fa un ammonimento al consorzio del Parco geominerario, perché gli impegni presi non sono stati finora rispettati».
Una situazione al limite del paradosso, messa in risalto anche da Italia Nostra nel suo appello al Presidente della Repubblica: il Parco, 11 anni dopo la sua istituzione, si trova «senza organi collegiali di gestione e senza pianta organica e non è stato ancora messo in condizione di dare avvio a una regolare attività operativa nonostante disponga di oltre 10 milioni di euro». Situazione solo in parte mitigata dall’assegnazione del Premio Eden 2011 all’area di Montevecchio, distintasi come destinazione europea di eccellenza per i progetti di turismo e rigenerazione di luoghi fisici (premiate, al 4° posto, pure le aree minerarie di Porto Flavia-Masua e di Serbariu a Carbonia).
Le strutture minerarie più importanti sono state recuperate e sono visitabili: il palazzo della direzione di Montevecchio, risalente al 1877, il cantiere di Piccalinna, con i macchinari usati per l’estrazione, la miniera di S. Antonio con la caratteristica torre merlata, le officine per la forgia e la tempra dei metalli (per la visita dell’area mineraria: Promoserapis, tel. 335.5314198).
A fare la differenza qui, tuttavia, è il paesaggio, la natura grandiosa di luoghi che paiono incontaminati, nonostante la millenaria attività dell’uomo. Per rendersene conto, basta percorrere le strade che conducono al mare e poi proseguire verso sud: la costa, da capo Frasca a capo Pecora, è un susseguirsi di spiagge contornate da dune alte fino a 60 metri, sulle quali prosperano ginepri e olivastri, macchie di lentisco ed elicriso. Con gli arenili di Is Arenas, Piscinas e Scivu che evocano, in appena tre chilometri quadrati, le immagini di un immenso deserto, limitato solo dalle onde del Mediterraneo (escursioni naturalistiche: Coop. Fulgheri, tel. 070.9346000; www.coopfulgheri.it).
Lascio Montevecchio, proseguendo attraverso le strade di miniera; dopo i villaggi di Ingurtosu, le case diroccate e la laveria Brassey di Naracauli, raggiungo la statale 126 e, una curva dopo l’altra, arrivo in vista del mare e del paese di Buggerru, che durante l’epoca d’oro delle miniere era abitato da 8mila persone e detto la Petite Paris per le splendide ville affacciate sul porticciolo, il teatro e le vetrine traboccanti di merci. Il rovescio della medaglia? Le proibitive condizioni di lavoro di uomini, donne e bambini che sfociarono nel primo sciopero generale in Italia, il 4 settembre 1904, finito in un bagno di sangue con quattro minatori uccisi dalle pallottole della forza pubblica.
Oggi la miniera sembra più accogliente: a bordo di un trenino elettrico, raggiungo la galleria Henry, fra scogliere a picco e viste stupefacenti sul mare (visite solo su prenotazione, Igea, tel. 0781.491300). Memorie minerarie, ma soprattutto mare nella vicina baia di cala Domestica, un fiordo fra rupi calcaree al quale arrivo camminando sulle dune. È difficile credere che questo luogo apparentemente fuori dal mondo sia stato un trafficato porto commerciale e, durante la seconda guerra mondiale, una base dei motoscafi armati siluranti.
Da qui in pochi minuti sono in vista dello scoglio del Pan di Zucchero che si staglia candido sullo sfondo della scogliera di Masua, sulla quale appare come scolpita la miniera di Porto Flavia, frutto di un ardito progetto ingegneristico che permise il carico rapido dei minerali sulle navi mercantili, riducendo i tempi di trasporto da quattro giorni a quattro ore.
Questo è davvero uno dei tratti di costa più scenografici del Mediterraneo: piccole cale si aprono su vertigini di roccia dai colori cupi; le mura e le ciminiere della laveria Lamarmora conservano il rigore estetico e il fascino di un santuario sconsacrato. Con una deviazione si può raggiungere in una piccola valle boscosa il tempio di Antas, edificio romano (ricomposto nel 1967) sul sito di un antichissimo santuario dedicato al dio guerriero e cacciatore Sardus Pater, e le vicine grotte carsiche di Su Mannau, dove si celebrava il culto delle acque.
Verso sud la costa di pietra allenta la sua morsa, cedendo agli arenili di Fontanamare e Porto Paglia aperti ai venti e regno degli appassionati di windsurf e kitesurf. Li lascio alle mie spalle e vado ancora verso l’interno per pochi chilometri, verso Carbonia, città di fondazione costruita in 300 giorni, fra 1937 e il 1938, per divenire la capitale del distretto del carbone, simbolo dell’autarchia fascista. Qui, due pozzi di estrazione dalle alte torri metalliche indicano l’area del giacimento di Serbariu, sulla quale dopo la riconversione è stato inaugurato nel 2006 il Centro italiano della cultura del carbone, con sale espositive ricche di testimonianze del periodo minerario (tel. 0781.62727; www.museodelcarbone.it).
È una bella giornata di sole, nel cielo azzurro corrono le nuvole e da qui le isole non sembrano lontane: San Pietro, figlia di Genova e Tabarka, e Sant’Antioco, amata dai Fenici. All’orizzonte le meravigliose sabbie di Porto Pino annunciano miraggi africani.