di Emma Lupano | Fotografie di: Monica Vinella
Si sa che la ex colonia britannica è la città degli affari. Meno che è un posto ricco di verde dove la tradizione convive con la modernità. Qui si vive bene, lo testimoniano i nostri connazionali che hanno deciso di trasferirsi qui a lavorare. Spiagge, villaggi di pescatori, grattacieli altissimi. Tutto convive in un'armonia inaspettata
Attesa sulla banchina dura il tempo della traversata, sette minuti. Troppo pochi per studiare, in coda sul pontile di Tsim Tsa Choi, i compagni di tragitto: turisti, uomini d’affari, studenti e signore. E troppo pochi per gustare Hong Kong da una delle sue angolazioni migliori. L’acqua.
Appena lo Star Ferry bianco e verde lascia Kowloon, si rimane indecisi. Da che parte guardare? La sponda di partenza, con il profilo senza finestre del Cultural Centre. O l’arrivo, con i grattacieli di Central e l’ombra del Victoria Peak. O forse l’acqua, che brilla sotto il cielo tropicale, o l’orizzonte, trafficato di piccole imbarcazioni che entrano ed escono dal Victoria Harbour. Non basta una traversata, non ne bastano dieci né cento per saziare lo sguardo. Bastano invece quei sette minuti di sospensione per tirare il fiato in una città dove si lavora, si fanno affari, si guadagna e si spende a ritmi velocissimi.
«Capitale asiatica della finanza, tempio degli affari». «Città materialista, dove la gente pensa soprattutto a lavorare e a fare soldi». Si arriva con questa idea a Hong Kong: una grande City esotica. E a Central, che della City è il cuore e il simbolo, il panorama umano sono i businessman in giacca e cravatta e le manager in tailleur. Volti asiatici, europei, americani si incrociano con passo affrettato sui ponti pedonali che si aggrovigliano intorno all’International Finance Centre e alla sua torre, la più alta di Hong Kong.
Poco distante, vicino alla riva, c’è la stazione dei taxi per accogliere, con l’aria condizionata sempre troppo alta, passeggeri affaticati dagli affari o dallo shopping. Hong Kong è anche questo: «Il paradiso degli acquisti», dice entusiasta Zhang Jianing, giornalista pechinese. Suo marito vive qui e lei, appena può, lo viene a trovare. «È un’ottima scusa per fare il pieno di abiti e scarpe di marchi stranieri». Qui i beni di lusso importati costano meno che sulla mainland, al di là del confine che fino al 2047 separerà la città dal resto della Repubblica popolare cinese.
Ma lo shopping dell’ex colonia britannica ha molto altro da offrire: «Il mercatino della giada dalle parti di Jordan, il mercato serale in Temple Street, gli antiquari di Hollywood Road e Cat Street. Lo shopping è ovunque», assicura Filippo Valentini, imprenditore sorrentino che commercia in gioie e vive qui da trent’anni. «Il mio posto preferito è il mercato di Stanley, anche se oggi è diventato un grossissimo bazar e una carissima boutique. Ci sono andato per la prima volta nel 1985» ricorda . «Allora si trovavano più che altro cianfrusaglie per americani: taglie extralarge e altra robaccia, che ho sempre adorato». Forse perché, con le bancarelle a due passi dal mare, la spiaggia e gli scogli, «Stanley mi fa pensare a Sorrento. Oggi non ha più l’atmosfera da villaggio di pescatori, ma quando vado respiro l’aria di mare, il caos del mercato, i cinesi che urlano, l’odore disgustoso del tofu fritto».
La quiete si trova solo «il sabato mattina presto, d’estate - suggerisce Massimo Cipolloni, manager alla Cathay Pacific -. Così si coglie l’atmosfera subtropicale tipica del sud della Cina. Il mare, i piccoli commercianti che sistemano le bancarelle, il calmo vociare cantonese sono un condensato di Hong Kong». Ma l’influenza britannica si fa ancora sentire sulla gente del posto. «Gli abitanti di questa città sono un mix di cultura cinese e istituzioni occidentali», continua Cipolloni. «Hanno uno spiccato senso del dovere e del lavoro e un forte senso della cosa pubblica. Tutto funziona bene perché lo esigono i cittadini».
Sarà per questo che prendere i mezzi pubblici è così piacevole. La metropolitana è efficiente e pulita. I mezzi di superficie vanno dappertutto e riescono a essere incredibilmente puntuali. Come i bus che si arrampicano per le strade tutte curve di Mid-levels o i tram a due piani che attraversano, con cigolii e stridori, la parte settentrionale dell’isola di Hong Kong. Quando si ha mezz’ora libera, viene voglia di prenderli fino al capolinea solo per gustarsi il panorama. Il vagone passa accanto ai negozi di pesce essiccato e alle farmacie piene di erbe di Des Veoux Road, sbircia nei ristoranti affollati e nei negozietti di Causeway Bay, lambisce i quartieri notturni di Lan Kwai Fong e Soho, sfiora gli uffici e i club di Wanchai, un tempo leggendaria area della prostituzione.
Quello che conta è esplorare, sempre. Camminare nei vicoli pieni di insegne e arrampicarsi sulle ripide scalinate. Entrare nei templi buddhisti pieni di incenso, stretti tra sempre più aggressivi progetti immobiliari che si contendono ogni centimetro della città verticale. Curiosare nei negozi che vendono le offerte di carta per i cari estinti. Fare acquisti tecnologici nei mercati dell’elettronica. Percorrere il «miglio d’oro» dello shopping su Nathan Road. E procurarsi gli orari dei traghetti per frequentare le uniche quattro isole stabilmente abitate delle oltre 200 Outlying Islands. Lantau, con la statua gigante del Buddha Tian Tan (e il ristorante turco più buono dell’intera Cina meridionale). Peng Chau, la più cinese, interamente pedonale e tranquilla. Cheng Chau, villaggio di pescatori con schiere di ristoranti per mangiare pesce fresco. E Lamma, l’isola fricchettona, popolata di stranieri senza arte né parte, frequentata per i suoi ristoranti, le spiagge e i sentieri selvaggi. «Prima ancora che una città, Hong Kong è un territorio, una mini-regione, che ha al suo interno una diversità che pochi immaginano», dice Ilaria Maria Sala, giornalista della Stampa che ha messo radici qui nel 1997. «Non ci sono solo i grattacieli di Central e di Kowloon, ma anche i parchi naturali sparsi ovunque. Ci sono i villaggi rurali e di pescatori, le piccole vie piene ancora di una vita da sud della Cina completamente diversa da quella che si trova oltrefrontiera. Le isole offrono suggestioni inaspettate, una natura incredibilmente ricca. È questa diversità che rende Hong Kong tanto vivibile».
C’è un altro ingrediente costitutivo della ex colonia britannica, il fatto di essere rimasta, nonostante il ritorno alla Cina nel 1997, un’oasi di libertà. «La stampa, internet, i discorsi delle persone, l’atmosfera: non c’è la censura, qui, né la costante pressione politica che si trova nel resto della Cina». Molti si spingono da queste parti per fare incetta di libri proibiti, per leggere giornali e riviste con notizie censurate oltreconfine. Hong Kong ha fascino anche durante le settimane dei tifoni estivi. «Quando la pioggia torrenziale scende fitta fitta, impetuosa come quella di un acquazzone, ma la sua foga non si esaurisce in una mezz’ora travolgente. Quando si è per strada è un problema: anche con l’ombrello si arriva fradici, come se piovesse dal cielo e dalla terra e dai lati», scrive Sala nel suo ultimo libro, Lettere dalla Cina.
E quando la natura non aiuta, tocca accantonare il trekking panoramico sul Victoria Peak e a Dragon’s Back, e dedicarsi ad attività indoor, senza perdere in varietà. Le conferenze organizzate dai circoli accademici e intellettuali, le corse ippiche a Happy Valley, i musei d’arte tradizionale. Oppure il jazz del Fringe Club, i massaggi ai piedi e il cinema, con le pellicole di arti marziali e i polizieschi per cui Hong Kong è famosa.
E poi ci sono le gioie del cibo, passione cui gli abitanti della ex colonia dedicano tempo e denaro. È tutto alimentare il dim sum, il rito più hongkonghese che ci sia. In cantonese significa snack, ma indica molto più di uno spuntino. La tradizione vuole che sia consumato la mattina, entro l’ora di pranzo, con l’intera famiglia riunita intorno a un tavolo, al ristorante. Sorseggiando tè, si assaggiano pietanze di ogni tipo (carne, pesce, frutti di mare, verdura) servite come bocconcini per lo più cotti al vapore in cestini di bambù. Una delle tante eredità del passato che sono ancora l’anima di questo luogo.
«Sbaglia chi pensa che, a causa della sua modernità, Hong Kong abbia perso le tradizioni. Basta entrare in una farmacia di medicina cinese per capire che la città, in modo discreto, porta ancora con sé la propria cultura e la nutre anche a ridosso dei grattacieli», assicura Cipolloni. E allora aveva ragione Tiziano Terzani: «Resistere al suo fascino è impossibile. Travolge il visitatore che arriva qui per la prima volta e quello che da anni continua a tornare».