di Giuseppe Scaraffia
Un pellegrinaggio poetico nella casa di Victor Hugo a Guernsey, l'isola nel canale della Manica dove lo scrittore si trasferì nel 1856 con la famiglia dopo il successo del suo libro di poesie
Il 31 ottobre 1855 sbarcò nell’isola di Guernsey con la sua famiglia un uomo dall’aria modesta e un po’ trascurata. Era Victor Hugo, il più famoso poeta dell’epoca, esule dalla Francia di Napoleone III. Un anno dopo iniziava la creazione della più suggestiva dimora romantica europea oggi trasformata in museo. «Dalla conchiglia», diceva Victor Hugo «si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino». Il successo delle sue poesie, Les Contemplations, gli aveva permesso di comprare nel 1856 uno spoglio edificio di tre piani costruito nel 1800 da un corsaro inglese: «Quel libro mi ha dato un tetto...», notava soddisfatto. Madame Hugo osservava, preoccupata, lo slancio con cui il marito stava trasformando quelle camere in un poema di pietra e legno. «Ho tradito la mia vocazione, ero nato per fare l’arredatore!» diceva Victor Hugo, mentre frugava l’isola, alla ricerca di vecchi mobili, stoffe, porcellane e quadri. L’ardore della ricerca gli faceva dimenticare la mortificazione dell’esilio.
Il poeta rivoluzionò quella che aveva battezzato Hauteville-House. Non si limitò ad allargare le stanze, ma fece alzare sulla terrazza un look-out, destinato a diventare il suo studio. Nessuno poteva entrare senza il suo permesso in quelle tre stanzette fredde d’inverno e soffocanti d’estate, dove lavorava e dormiva. Una scala dissimulata gli consentiva di uscire per le sue scappatelle erotiche, senza passare dalla porta d’entrata. All’ingresso principale si leggeva in lettere maiuscole, su una colonna scolpita, «Victor-Hugo-Notre-Dame-de-Paris». Il bianco e azzurro del papier peint settecentesco faceva risaltare gli scuri mobili gotici, frutto di un bricolage che assemblava pannelli scolpiti bretoni. «Ama, crede» ingiungeva una scritta sopra la porta. Una delle tante che, insieme alla presenza ossessiva delle iniziali del padrone di casa, tramutavano Hauteville-House in un libro immobile. Al pianterreno, i battenti della porta della sala del biliardo dividevano in due un grande Ave, sovrastato da una Madonna col bambino di legno dipinto.
Gli unici elementi scuri del salotto degli arazzi erano le boiserie e il tappeto persiano. Ovunque gli Aubusson si mescolavano agli arazzi orientali. Un tocco di goliardia era fornito dal cavaliere rampante scolpito sul coperchio di un water, soprannominato da Hugo il re d’Yvetot, da una celebre canzone di Béranger. «Buon re, re che se ne va», ribadivano le scritte ai lati del bassorilievo. L’immane camino a tre piani sembrava una cattedrale. Per costruirlo il poeta aveva fuso gli stili più diversi, dal medievale al rinascimentale. Nella sala da pranzo, Hugo aspettava in piedi che tutti si fossero seduti.
Sugli schienali delle sedie olandesi gli stemmi degli Hugo di Lorena e quelli della famiglia del poeta si alternavano pacificamente. Sul soffitto un Gobelins esibiva l’Autunno e Pomona. Le pareti erano tappezzate di rare piastrelle di Delft che formavano sopra il camino una grande H. L’arredo più impressionante era la gigantesca poltrona di quercia, sbarrata da una catena di ferro dorato, troneggiante sotto un baldacchino.
Nel salotto azzurro, l’Oriente si mescolava con il Sei e il Settecento in un concerto di tinte sommesse. Le pareti di specchio dello stipo riflettevano la seta celeste delle pareti e gli impassibili Buddha dorati. Le sei colonne tortili di legno dorato che sostenevano il baldacchino e il frontone Luigi XIII del camino potevano solo venire dal letto di Madame de Maintenon. La luce di cinque finestre smorzava la cupezza della galleria di quercia. Sotto San Paolo e San Pietro, una duplice scritta esortava i visitatori, «Perge», «Surge» alzati e cammina. Avorio e madreperla venavano il legno chiaro dell’armadio di Burgos. Tra il soffitto e il mobile, una sentenza incisa nel cuoio suona così: «Gli dei appartengono al vincitore, Catone resta col vinto». Lungo la pesante tavola c’erano tre sedie diverse. Su ognuno degli schienali chiodi dorati illustravano il loro proprietario: «Filius, Pater, Mater». Quattro colonne tortili enfatizzavano le colossali proporzioni del letto scolpito. «Non-Mors-Lux» era inciso sul capezzale, sotto le Naiadi e i Tritoni. «La fata Bric-à-Brac mi ha fatto gli occhi dolci e il dio Bibelot mi ha preso a benvolere» confessava Hugo.