di Paolo Simoncelli | Foto di Paolo Simoncelli
Da Acitrezza a Vizzini passando per Catania. Un viaggio nella costa orientale della Sicilia, alla scoperta dei luoghi (e dei personaggi) dove Giovanni Verga ambientò tutti i suoi romanzi veristi e Visconti ambientò La terra trema
Oggi come un tempo ad Aci Trezza «si va coi soprannomi». Se per esempio uno si chiama Giovanni, come il barcaiolo-poeta che declama versi andando tra i faraglioni e l’isoletta Lachea, i trezzoti fanno la crasi: il nome diventa Gianni poi ci aggiungono quello della mamma Serafina che diventa Fina. Il risultato Giannifina è il soprannome, inciuria in siciliano, che apre orizzonti insperati. Lo conoscono tutti Giannifina ad Aci Trezza, paese dove sul finire dell’Ottocento Giovanni Verga ambientò I Malavoglia, amara storia di una povera famiglia di pescatori il cui nome è esso stesso un’inciuria che allude alla scarsa voglia di lavorare dei protagonisti. La trama dal destino ineluttabile, nelle intenzioni di Verga, doveva colpire come un pugno allo stomaco. Era chiaro in ogni riga che per quegli uomini, imbrigliati alle reti più dei pesci, non c’era speranza alcuna. In attesa di Giannifina, ho il tempo di assaggiare un bicchierone di seltz, limone e sale al chiosco dei Marinai, in voga dal 1947.
In questa torrida giornata di luglio, la bevanda rinfresca, tonifica. A Maruzza La Longa, invece, nel romanzo di Verga serviva a toglierle l’amaro dalla bocca nel vedere il figlio ’Ntoni che saliva sul treno per andare militare. Intanto alla vicina casa del Nespolo arriva gente. È qui, dove nell’immaginario dello scrittore abitava la famiglia Toscano, che gli attori dell’associazione Fantasticheria rievocano le vicende del romanzo. Parole dai toni cristallini si stampano nell’aria insieme all’odore del bucato. Poi rimbombano sotto l’arco in pietra lavica che nasconde tutto il mondo di ’Ntoni e di padron ’Ntoni. Prima il cortile col nespolo e poi, oltre una porticina, i vecchi attrezzi da pesca. Ci sono le lettere che Verga scrisse al fratello Pietro e le foto in bianco e nero regalate al museo dai pescatori che nel 1947 parteciparono come comparse nel film La terra trema, capolavoro neorealista di Luchino Visconti ispirato al romanzo verghiano. Poco più in là, al porto, ci sono le barchette colorate, con simboli e figure di santi da affidare alle onde. Quando vanno per mare portano i colori a spasso lungo la costa, da Santa Maria della Scala, vicino ad Acireale, fino ad Aci Castello e Catania.
È qui, al maniero normanno a picco sulla falesia lavica, che lavora un altro interprete di questa terra, il custode Davide Aricò. Davide, che scrive poesie meglio di tanti poeti che mi hanno fatto studiare a scuola, sta per terminare un libro d’arte, Il Rosario del Cogliparole, una sorta di cesta magica dove ha raccolto negli anni le riflessioni dei visitatori. Una volta uno di loro gli ha detto così: «Sai Davide, a volte mi sembra che i gabbiani seduti sull’acqua covino il mare». Un’altra volta invece, era un’uggiosa giornata d’inverno, a Davide sembrò che il castello mollasse gli ormeggi. «Giorno rigido», recita la poesia «fittamente bianco, con la mia barca di pietra navigo una ghirlanda di gabbiani».
Intanto ad Aci Trezza un gruppo di pescatori si è sistemato tra due carene ammuffite, simili a corpi di balena, per giocare a carte. Più in là qualcuno ripara le reti e un maestro d’ascia smartella sul legno. Oggi sono soddisfatto. Ho divorato un piatto di spaghetti al nero di seppia alla trattoria Da Gaetano e poi sono andato a trovare la moglie Agnese Giammona, arzilla ottuagenaria il cui viso da sedicenne compare nella locandina del film di Visconti. Quel volto angelico e intenso stregò il regista. Volle fortemente che fosse lei una delle protagoniste del film, insieme alla sorella Nella e a quella pletora di attori non professionisti presi dalle spelonche del paesello siciliano. Dovevano recitare la parte degli “eroi piccini” raccontati da Verga ma che ne sapevano di piano sequenza e pausa recitativa un macellaio, un pescatore o un ciabattino prelevati dal loro mondo di reti da pesca, scarpe da risuolare e quarti di bue? Nulla. Però possedevano ciò che Luchino Visconti desiderava: erano loro. «A volte ci voleva un giorno intero per girare una sola scena», dice Nella. E dovevano persino disegnare le sceneggiature perché quegli attori improvvisati erano analfabeti. Per Visconti non fu arduo solo portare a termine le riprese ma persino convincere i trezzoti a partecipare al film.
Erano gli anni in cui le donne sole erano guardate di traverso. Persino le coppie maritate si facevano vedere con la scorta dei genitori. Figuriamoci cosa voleva dire convincere papà e mamma a consegnare le due giovanissime figlie per sette mesi a un regista, famoso fin che si vuole, ma chi lo conosceva Luchino Visconti ad Aci Trezza? «Però la paga era buona», dice Nella. Soprattutto dopo la guerra, quando la miseria era nera. Coi soldi del film i pescatori acquistarono barche a motore. E la vita girò. Prima, a colpi di remi, prendevano acciughe a pochi metri dalla costa, adesso arrivavano in mare aperto per far razzia di saraghi e triglie. Insomma diventarono quasi ricchi.
A pochi chilometri da Aci Trezza, a Catania, c’è la casa di via S. Anna dove, scapolo irriducibile, Verga trascorse tra ritratti di famiglia, una buona scorta di cappelli e abiti eleganti, gli ultimi anni di vita. Tutto è immobile, cristallizzato, come se dovesse rientrare da un momento all’altro dalla passeggiata quotidiana al Circolo dell’Unione. Ci sono la biblioteca col vecchio lampadario, il tavolo col calco della mano, il letto dove morì, la sala da pranzo con la credenza che nasconde il passavivande collegato alla cucina, il ritratto del 1912 del pittore veneto Amedeo Bianchi. Nel dipinto Verga mostra un cespuglioso paio di baffoni, così curati che non è difficile immaginare continue attenzioni. Ovvio che doveva servirgli un ottimo lisciabaffi da portare nel taschino. Per vedere il lisciabaffi e sprofondare nei ricordi più intimi dello scrittore, percorrete pochi chilometri fino a Vizzini, forse suo luogo natale. Si parla del primo vagito in contrada Tebidi, nel podere di campagna dello zio, don Salvatore.
La faccenda è dibattuta. È qui, nella quiete dell’agro catanese, tra verdi colline, mulini ad acqua e distese di fichi d’India, che lo scrittore ambientò molte delle sue opere: Mastro-don Gesualdo, Cavalleria rusticana, Jeli il pastore. La conseguenza è che nell’incantevole borgo si ritrovano decine di luoghi descritti da Verga: la chiesa di S. Agata dove si celebrò il matrimonio tra Bianca Trao e Mastro-don Gesualdo oppure la piazzetta S. Teresa dove, all’ombra dell’osteria ’Gna Nunzia, la compagnia dell’Associazione teatro Skené rappresenta degli estratti dalla Cavalleria rusticana nel più puro spirito del teatro di reviviscenza fondato da Alfredo Mazzone. È un teatro di strada vero come un racconto di Verga. Il pubblico assiepa la piazza e gli attori si fanno largo tra gli spettatori per mandare in scena la parte cruciale della novella: il morso della sfida, la maledizione lanciata da Santuzza, «A te la mala Pasqua», sui gradini della chiesa. Fuori dal paese invece, appartato tra colline punteggiate di fichi d’India, langue in un decadente abbandono l’antico quartiere della Cunziria. È in questo affascinante reperto d’archeologia industriale, teatro del duello tra compare Alfio e compare Turiddu, che fino agli anni Cinquanta un brulicare di uomini rimestava tutto il santo giorno nelle vasche per le pelli. Tra latrati di cani e ruderi, c’è ancora la chiesetta di S. Egidio dove tutte le domeniche, fino al 1920, scendeva il prete dal paese a celebrare messa per i cunzirioti, i conciapelli. Poi, ineluttabile come per i pescatori di Aci Trezza, la vita dura e amara ritornava a scorrere.