di Alfio Caruso
L’eroica resistenza sull'isola della divisione Acqui, unica dell’esercito italiano a non essersi arresa ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943
Del vecchio abitato di Argostoli, che accolse la divisione Acqui dalla primavera 1941 al settembre 1943, rimangono piazza Valianos e il vecchio campo sportivo adiacente l’edificio della Marina mercantile. Al pari di Cefalonia, anche la capitale fu distrutta dal terremoto del 1953 e ricostruita quasi per intero. Nei pressi del porto si trova la località chiamata anticamente “Due mulini”, colma di bancarelle di frutta, di verdure, di specialità locali: qui era posizionata la 1ª batteria del capitano Pampaloni, che il 13 settembre 1943 aprì il fuoco contro i due zatteroni tedeschi intenti a rompere la tregua. Fu l’antecedente dell’eroica resistenza della Acqui, unica divisione dell’esercito italiano a non arrendersi al tedesco dopo l’armistizio dell’8 settembre. Per una settimana, sotto l’imperversare dei caccia Stuka, si combatté da monte Telegrafo alle cime del Kutzuli. Un atto d’orgoglio e di fedeltà all’Italia pagato con oltre novemila morti (1.500 caduti in battaglia, cinquemila passati per le armi dopo la resa, tremila affondati sulle navi).
La strada angusta scivola verso capo San Teodoro. In una rientranza sorge ora il sacrario dei martiri della Acqui inaugurato dal Presidente Sandro Pertini nel 1980. La “casetta rossa”, dove il 24 settembre furono radunati gli ultimi 170 ufficiali sotto il dominio germanico, spunta improvvisa sulla sinistra. Antica dimora del medico condotto, anche il piccolo edificio è stato ricostruito conservando, però, il colore che l’ha reso tristemente famoso. Intorno ulivi, carrubi, più in là qualche pino.
Gli italiani furono rinserrati fra questi arbusti prima di essere avviati verso l’ulivo dinanzi al quale in 129 vennero fucilati: la corteccia conserva i fori dei proiettili, nei decenni sono diventati il rifugio delle formiche. A fianco la buca, dentro la quale i cadaveri, ricevuto il colpo di grazia, furono poi ammassati. Il vallone di Santa Barbara è una gola a metà strada fra Argostoli e Prokopata. Costoni di roccia punteggiati da ginestre.
Quel 21 settembre splendeva un sole caldo: trecento militari italiani vi furono massacrati mentre si dissetavano. Due chilometri più su sorge il villaggio di Prokopata: il comando tattico del generale Gandin è adesso una casupola abbandonata. Dove comincia la campagna circa cento soldati furono denudati e messi in fila, neppure videro le due mitragliatrici piazzate dietro l’ulivo sulla sinistra.
Il borgo di Troianata è abbarbicato sui fianchi del monte Falari. La scuola elementare è rimasta quella del 1943. Il cortile accolse la sera del 21 oltre 600 tra fanti e artiglieri affranti e affamati. All’alba furono condotti sul campo sottostante: all’imbocco della strada erano posizionate le mitragliatrici che servirono per la strage. Dirimpetto resiste il muretto a secco dal quale il carnefice si sporse per invitare gli italiani sopravvissuti a venir fuori perché tutto era finito. Così altri quindici finirono in bocca agli sterminatori.
Ancora oggi a Cefalonia quando scoppia un incendio e s’alza il fumo qualcuno degli anziani dice che la divisione Acqui sta salendo in cielo in ricordo dei roghi allestiti dai tedeschi per bruciare i corpi e nascondere il crimine.