Fabrica dei talenti

Clara VannucciClara VannucciClara VannucciClara VannucciClara VannucciClara Vannucci

Da vent’anni un’antica villa veneta vicino a Treviso, completamente ripensata e ristrutturata, è diventata un’accademia per giovani creativi da tutto il mondo. Una vera fucina di artisti, designer e comunicatori

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Catena, fabbrica, marca: tre termini che, senza riferimenti, parrebbero estratti dal lessico della produzione industriale. Sbagliato. O quasi (anzi no, in effetti). Partiamo dall’ultimo: la Marca è quella trevigiana, la landa “gioiosa et amorosa” che oggi si fa corrispondere al territorio della provincia di Treviso. Catena è invece il toponimo della frazione di Villorba, un Comune sulla statale Pontebbana, a metà strada tra il Sile che attraversa il capoluogo e il Piave, in piena Marca. E la fabbrica? Con una b in meno (in latino, dunque) e con l’iniziale maiuscola, Fabrica è un centro di ricerca sulla comunicazione della galassia Benetton – ideato da Luciano Benetton e Oliviero Toscani – a Catena di Villorba, appunto. E a pochi minuti dalla sede del gruppo, che si trova a Ponzano Veneto (Tv).
Fabrica compie in queste settimane vent’anni di attività, in settemila giorni ha ospitato e promosso settecento “fabricanti”. Così si chiamano i giovani ospiti, creativi da tutto il mondo che, selezionati per mesi (e testati sul campo per due settimane), hanno tre caratteristiche: talento, entusiasmo e meno di 25 anni d’età. Sono accompagnati nel loro percorso da tutor esperti e decani. «Non sono però professori». Enrico Bossan, responsabile dell’area editorial e una delle stelle fisse della costellazione di Fabrica, taglia corto. E aggiunge: «è una specie di accademia, forse. E in effetti si impara molto. Ma sono i progetti a trainare la formazione: l’esperienza e la collaborazione concreta fanno il resto».

Una cittadella dell’innovazione, moderatamente hi-tech ma non geek (ossessionato dalla tecnologia, ndr), che innova rompendo molte regole e imponendone qualcuna che altri poi seguiranno. Un esempio su tutti, per farsi un’idea: Erik Ravelo è un cubano di 36 anni e da 12 ritrova tra i canali trevigiani il proprio malecón natio. Dal rum alle ombrete di rosso, ha iniziato come direttore creativo di Colors – il magazine di culto che ha sede a qualche postazione e un paio di corridoi dal suo spazio – e ora si occupa delle iniziative di social engagement. È lui che ha ideato la campagna Unhate, quella coi leader mondiali che si baciano sulle labbra. «Abbiamo risorse e idee, due patrimoni che si alimentano reciprocamente. E tante competenze a portata di mano. Insomma, niente scuse: da vent’anni rincorriamo, alimentandolo, un modello di lettura del mondo, di racconto e impegno che si pone tante domande. E dà un po’ di risposte».

 

Il contenuto di Fabrica è dunque un amalgama di sperimentazione e ricerca su design, grafica, fotografia, video, musica e giornalismo. E, soprattutto, sui terreni, vecchi e nuovi, che attraversano – ridefinendone confini e modalità di fruizione – le aree di interazione tra i diversi settori.
E il contenitore? È un guscio che non si limita, si fa per dire, a ospitare un miniesercito di creativi per assecondarne slanci individuali, collaborazioni tra team diversi, progetti e prodotti. Non sarebbe comunque poco, soprattutto se questo succede da due decenni. Ma è un’opera in 3D che merita di essere visitata e raccontata, in esclusiva per Touring, una villa veneta sui generis, probabilmente la più interessante delle venti del Comune di Villorba: pochi stucchi e restauri patinati (anche se si è fatto comunque ricorso a mattoni tradizionali, cocciopesto e marmorino) ma molto cemento a vista e vetro. Geometrie aggiunte e sottratte.
Villa Pastega Manera, eretta nel Seicento, era il fulcro di un podere che, col tempo e con la fortunata miscela di schei e lungimiranza, è stata riqualificata, ampliata (dotandola di un oratorio) e integrata con altre strutture. Resta così – elegante e impolverata, decadente ma non del tutto decaduta – per due dozzine di decenni. Fino ai primi anni Novanta, poi la svolta: Fabrica non è più solo un’idea ma un progetto e ha bisogno di una sua casa. A concepirla e realizzarla viene chiamato Tadao Ando. L’architetto di Osaka ha 50 anni e, smessa da tempo la promettente carriera da pugile, s’è già fatto notare per le molte soluzioni architettoniche ardite ideate in Giappone. Si affaccia solo ora al panorama mondiale con la Seminar House del Vitra di Basilea, con il restauro e l’ampliamento della villa di Villorba si fa conoscere davvero nel Vecchio Mondo. In Veneto in particolare, un sodalizio che dura ancora oggi, dall’entroterra trevigiano alla laguna (e ritorno): interverrà infatti anche al Teatrino di palazzo Grassi e a Punta della Dogana.

«La prima volta che ho viaggiato nella zona di Treviso»  ci racconta «è stato quarant’anni fa. Ero lì per visitare la Tomba Brion di Carlo Scarpa» (commissionata da Onorina Brion Tomasin, vedova di Giuseppe Brion, il fondatore della Brionvega). «Mi colpì il senso di serenità che quelle campagne evocavano, era molto diverso dall’ambiente rurale giapponese che conoscevo». Gli anni passano e nel 1992 inizia a lavorare al progetto di Fabrica. «L’idea di fondo era quella di uno spazio nuovo per usi nuovi, un ambiente di lavoro innovativo che si fondesse però nel paesaggio, serbandone l’aura di calma. Si decise dunque che molti dei nuovi volumi dovessero essere interrati, in un dialogo diverso tra dentro e fuori». Risolto, quasi sublimato in una nuova lettura sopra-sotto e «integrandolo con zone intermedie di transizione e armonizzazione». L’atrio della villa viene ridisegnato, in forma ellittica e a doppia altezza. Una “piazza scavata” che dal livello del terreno scende a otto metri, in uno sprofondamento controllato che confonde ma rassicura. Vi si accede direttamente percorrendo l’invaso a gradoni a pochi passi dal viale d’ingresso. Oppure seguendo la scansione estesa che passa per il colonnato: scegliamo questa seconda sequenza per comprendere meglio quali fossero gli ambienti originari.

 

Sulle barchesse si agisce con audacia: realizzando un auditorium in quella maggiore e un volume vetrato di raccordo tra le due. Una grande vasca d’acqua, vivissima eppure quasi metafisica, segue i due lati, lambendoli, del nuovo percorso di accesso alla barchessa minore. Le colonne fanno il resto e invitano a chiedersi verso cosa ci si muova, con questo trapezio davanti e gli archi sullo sfondo. L’immersione controllata si fa però in un attimo strada quasi da sé e la “fabbrica” vera e propria si apre in un corpo rettilineo che immette nel complesso degli ambienti di lavoro. «La vera funzionalità è quella che si ottiene facilitando la connessione tra i diversi ambienti con passaggi e aree di transito o riflessione», spiega Ando. «La sequenza di questi volumi, trattandosi di un complesso di ambienti in gran parte sotterraneo, è importante quanto, forse più, della razionalità intrinseca delle singole stanze». Immediata metafora – perché no? – del modo in cui si lavora qui: nei nodi si concentra la competenza specifica ma è nella rete che li lega (e che ne definisce distanze e relazioni) che si animano i progetti che Fabrica incuba e produce.

Torniamo alla villa. Esplorati e assimilati i due esterni – quello con le colonne dai capitelli troncoconici e l’area con le pareti in cemento armato a vista che accompagnano (proteggendone idealmente il percorso) agli ambienti verso la piazza ellittica – ci si inizia a rendere conto che i materiali impiegati e gli elementi naturali (aria e luce) dialogano in un modo inedito. Contribuiscono ad aprire la struttura alla vista e alla comprensione. Non appare più come una serie di luoghi distinti e diversi. Si è di fronte a una sezione vera e propria, in profondità, che svela la complessità, invece di custodirla e celarla, degli 11mila metri quadrati di superficie.

Il turbine di attività si anima, incessante ma non frenetico, al suo interno: Lisa, una interaction designer delle Hawaii, lavora ai sensori di un pannello acustico. La fotografa statunitense Sofia racconta di un lungo soggiorno in Sudafrica mentre Matthew, architetto inglese, esamina – ora allargando lo sguardo, ora zoomando, come il drone del quale si occupa – la bozza del progetto cui lavora con Alejandro (scrittore francese) e Alice (designer italiana). Penso alle loro ambizioni e rifletto sul fatto che i prossimi “fabricanti” saranno tutti nati dopo il giorno della caduta del Muro di Berlino.
Poi la mente, le parole (e poco dopo le gambe) mi portano fuori, oltre la ghiaia del vialetto e al di là del cancello. I volumi ellittici, il trapezio d’acqua e le linee elicoidali della biblioteca si ricompongono in un sistema di riferimenti riconoscibile ma non per questo più naturale. E immettono di nuovo in questa porzione di Marca che Tadao Ando ha trovato placida e che Mario Del Monaco ha eletto a buen retiro per corde vocali & co. Terra di biciclette e vini, ville e canali, loghi e luoghi, fabricae e fabbriche.