L'altra Georgia

Massimo BassanoMassimo BassanoMassimo Bassano

Il piccolo Paese caucasico tra Russia e Azerbaigian è legato a religione, tradizione e ospitalità. Ma anche irresistibilmente attratto dalla modernità, soprattutto nella capitale Tbilisi.

La tavola è apparecchiata per la supra, la festa tradizionale attorno alla quale ruota tutta la vita georgiana. Come centrotavola, pronta per essere mangiata, una testa di maiale stufato e da bere decine di bottiglie di infuso di pigne. Qui a Ushguli, una comunità di duecento persone che si dice essere il più alto villaggio abitato senza interruzioni in Europa, la tradizione è di primaria importanza. Mentre il resto della Georgia è stato plasmato da secoli di invasioni (russi, turchi e persiani hanno lasciato i loro segni), la remota e isolata provincia di montagna di Svaneziam, Patrimonio dell’umanità Unesco, rimane un luogo mitico nell’immaginario collettivo. È quella la vera Georgia che rimane intatta nel tempo. I nostri anziani ospiti, marito e moglie proprietari della guest-house Ushguli Chajashi, quando arriviamo sono nel mezzo di una discussione in dialetto. Persino il mio amico Giorgi Naveriani che è di queste parti fa fatica a capirli però ci dice che è normale, non stanno discutendo, sono solo Svan (gli abitanti della Svanezia). Lui stesso è incaricato di fare il primo brindisi una volta a tavola anche se è la prima volta che lo vedono, ma Giorgi è anche lui Svan e ha la tradizione nel sangue. Sbaglia però: chiede alla vergine Maria di benedirci tutti, ma viene subito redarguito perché Maria benedice solo le donne, mentre San Giorgio gli uomini. Ha forse perso contatto con le sue radici da quando vive nella capitale Tbilisi? Ci pensa il nostro ospite Yaroslav a risolvere la situazione brindando alle radici, alle famiglie, al passato, persino al mio lignaggio americano. Stiamo brindando alla tradizione e al sangue. Stiamo brindando alla Georgia: eterna e sempre uguale.

Forse nella Georgia di Yaroslav nulla è cambiato, ma non in quella del mio giovane compagno di viaggio Giorgi. Quando l’ho incontrato per la prima volta a Tbilisi, indossava jeans stretti e una maglietta, con i lunghi capelli legati a coda di cavallo. È la quintessenza degli hipster (sottocultura di origine americana molto in voga attualmente, ndt) locali: più a proprio agio facendo il dj nei bar cittadini che sulle montagne a Ushguli. «Quando ero un ragazzino in Svanezia», racconta «la gente diceva che ero un adoratore di Satana perché ascoltavo il rock. Non vedevo l’ora di scappare». Oggi, nella capitale, può finalmente essere se stesso. La città abbraccia e cambia; forse anche troppo. Ho passato tre anni ad andare e venire da Tbilisi mentre ero una freelance. C’è un detto qui: quelli a cui entra la Georgia nel sangue non se ne vanno mai via davvero. Ed eccomi di nuovo qui a scoprire questo legame, ma la città che avevo amato e lasciato con i suoi palazzi art nouveau e le terrazze decadenti oggi è una metropoli pulsante con 1,2 milioni di persone, trasformata praticamente in una notte dagli investimenti stranieri e la pianificazione urbana aggressiva voluta sia dall’ex presidente Mikheil Saakashvili sia dal suo rivale ex primo ministro Bidzina Ivanishvili. Una nuova funicolare porta i turisti su fino alle rovine dell’antica fortezza Narikala. Un colossale casinò con le pareti a vetri e i led che lo illuminano si affaccia sul fiume Kura, mentre piazza Meidan, un tempo casa di argentieri e pittori di icone, è oggi sovraffollata di luccicanti bar. Pensavo di essere abituata al cambiamento, ma forse la Georgia sta cambiando un po’ troppo per i miei gusti. Giorgi mi porta in un locale chiamato Canudos, vicino a un sexy shop e all’ombra del Radisson hotel. Il giardino che circonda una statua di epoca sovietica è pieno di bandiere con le preghiere buddiste, amache logore e robottini di Guerre stellari. Di sottofondo la musica di una band locale, i Kung fu junkie. La folla è composta da un misto di espatriati e artisti. A un certo punto un ragazzo entra con una pistola in mano. Per un attimo cade il silenzio e a tutti torna alla memoria la Georgia di un decennio fa, tra banditi e assenza di leggi. Poi tutti scoppiano a ridere. Era solo uno scherzo.

Se la Tbilisi di Giorgi è inesorabilmente moderna, la mia è quella ottocentesca del quartiere di Sololaki. Qui trovo quello che tanto mi aveva ispirato di questa città. Alcuni dei palazzi che ho amato, come la celebre casa blu in piazza Gudiashvili che ospitò un tempo il poeta russo Mikhail Lermontov, è stata rasa al suolo per far spazio a nuovi progetti, ma altri rimangono: la casa delle sirene nel quartiere ebraico con i suoi balconi di ferro con le code di pesce, il palazzo giallo in stile ottomano sulla strada Lado Asatiani, le piscine pubbliche nel quartiere azero musulmano di Abanotubani. Ogni casa è una testimonianza di tutti gli stranieri che, nel corso dei secoli, sono venuti qui per rendere loro questo posto. Ma anche Giorgi ammette che Tbilisi non è la “vera” Georgia la cui essenza sta nelle montagne, sui picchi selvaggi del Caucaso descritti nelle poesie di Alexander Kazbegi che lasciò la sua vita di piaceri nella capitale e a San Pietroburgo per diventare pastore nella città di Stepantsminda.

Fino alla fine degli anni Novanta visitare la Svanezia era un'idea folle, sia per la lontananza geografica sia per il pericolo di essere derubati o peggio dai banditi locali. Anche gli abitanti non erano al sicuro come dimostrano le torri di vedetta che caratterizzano quasi ogni casa Svan. Con Giorgi decidiamo di scoprirla questa zona con un lungo viaggio in macchina. Sulla strada meritano una sosta Mestia e il monastero Gelati del dodicesimo secolo appena fuori la città di Kutaisi. La messa sta cominciando e, attorno a noi, donne accendono candele, pregando sottovoce. Anche Giorgi si mette in ginocchio per baciare un’icona della Madonna. Più tardi quando gli chiedo della sua fede risponde soltanto: «È il mio Paese, la mia storia». Appena giunti a Mestia scopro che anche la Svanezia sta cambiando. Un aeroporto moderno accoglie voli quotidiani dalla capitale, gli impianti da sci sono il nuovo business e i governanti locali sperano di trasformare la città nella Svizzera georgiana. Il giorno dopo ci avviamo verso Ushguli. Tre ore di auto tra prati ricoperti di fiori, pendii di foreste, mentre sullo sfondo si intravede il lontano monte Shkhara (5068 m) la cui cima è ricoperta di neve. Giunti a destinazione decidiamo di usare un mezzo di trasporto più tradizionale: due cavalli. In sella seguo Giorgi su strade strette, ma appena ci lasciamo la strada alle spalle gli animali cominciano a galoppare felici. Gli anni trascorsi a Tbilisi non hanno rammollito Giorgi e il suo istinto: «Questo è ciò che amo. Dopo tutto questa è casa mia». Nonostante tutta la voglia di fuggire a Tbilisi. Ed è proprio nella capitale che trascorriamo l’ultima sera. Decidiamo di andare al ristorante Phaetoni, famoso per i danzatori tradizionali. Le loro coreografie sono acrobatiche e complesse, simili a duelli con spade e scudi. La gente applaude a tempo con la musica. Intanto mangiamo con le mani e ci riempiamo i bicchieri. Questa non è una supra tradizionale, non ci sono brindisi alla vergine Maria o a San Giorgio. Qui si parla inglese, ci si veste all’europea, ma bevendo, cantando e brindando facciamo la nostra festa. Oltre le tradizioni minacciate sta crescendo qualcosa di nuovo, qualcosa di nostro: una Georgia che, anche se non tradizionale, non per questo è meno vera.