di Viviano Domenici | Viviano Domenici
Conchiglie e legnetti per indicare la rotta sull’oceano. Le ingegnose soluzioni degli indigeni del Pacifico e degli Inuit della Groenlandia
Ero in partenza per l’Irian Jaya, la parte indonesiana della Nuova Guinea, quando vidi sulla carta geografica un inquietante avvertimento: “Relief data incomplete”, cioè area non completamente cartografata; e io ero diretto proprio laggiù. Avvertii un po’ d’ansia, anche se di solito le mappe mi rassicurano perché mi dicono dove sono e dove devo andare.
Probabilmente all’origine della cartografia c’è questo bisogno di trovare il nostro posto nel mondo, e per scoprirlo gli uomini di ogni epoca hanno realizzato mappe di ogni tipo, spesso così diverse dalle nostre che in qualche caso fatichiamo a riconoscerle.
Tra le più singolari vi sono le cosiddette stick chart utilizzate fino a dopo la seconda guerra mondiale dagli abitanti dell’arcipelago delle Marshall, in Micronesia (oceano Pacifico). Si tratta di griglie di bastoncini legati tra loro con le conchiglie fissate nei punti giusti: i bastoncini, ricavati dalla nervatura centrale delle foglie di palma, indicano l’andamento del moto ondoso e delle correnti; le conchiglie rappresentano le isole. Furono notate per la prima volta nel 1862 da un missionario e poi studiate da un certo capitano Winkler della marina imperiale tedesca, di stanza nell’atollo di Jaluit. Nel 1896, dopo un’estenuante indagine tra la popolazione locale, piuttosto restia a dare spiegazioni, Winkler pubblicò un articolo grazie al quale sappiamo che i bastoncini potevano indicare sia la direzione del moto ondoso prevalente sia quella, molto più difficile da identificare, delle “onde riflesse” che si muovono superficialmente e in direzione diversa; sono prodotte dell’impatto delle onde prevalenti e delle correnti sulle pendici sottomarine delle isole.
Winkler identificò tre tipi di mappe: le rebbelib, molto schematiche e utilizzate solo per scopi didattici; le mattang, relative a un tratto di mare con poche isole, aiutavano anche a individuare l’esistenza di un’isola ben prima che fosse visibile all’orizzonte; infine le meddo che avevano le stesse caratteristiche delle mattang, ma comprendevano tutte le isole di un gruppo o di entrambi i gruppi delle Marshall.
Ma ogni stick chart era un unicum. Ciascun capofamiglia, infatti, le realizzava secondo regole personali note solo ad alcuni famigliari ma, poiché non potevano essere portate in viaggio, dovevano essere memorizzate e lasciate a casa. Una volta in mare, il capobarca osservava ogni caratteristica dei venti, delle nubi, del volo degli uccelli e – in particolare – del moto ondoso (direzione, colore e persino sapore dell’acqua); per farlo si stendeva di schiena sul fondo della canoa in modo da “sentire” col proprio corpo che tipo di onda stesse colpendo la chiglia. Correlava poi i dati con quelli della stick chart memorizzata e stabiliva la rotta da seguire. In questo modo e grazie a tali strumenti, fu esplorata gran parte dell’oceano Pacifico.
Altre mappe davvero insolite sono quelle intagliate nel legno dagli inuit della Groenlandia. Il primo europeo ad averne una tra le mani fu il danese Gustav Holm, capo di una spedizione che tra il 1880 e il 1885 esplorò la costa dell’isola di Ammassalik nella Groenlandia orientale, dove vivevano diversi gruppi di inuit che ancora non avevano avuto contatti con gli europei. Durante il viaggio, Holm acquistò da un inuit di nome Kunit tre legni intagliati: il primo era un bastone con una serie di ingrossamenti raffiguranti una teoria di isole; il secondo era una tavoletta con i bordi sagomati che riproducevano l’andamento della costa; il terzo raffigurava un promontorio dell’isola di Ammassalik. Mappe tridimensionali e inaffondabili, adatte a gente di mare poco interessata all’entroterra.