Bogotà. Capitale grandi forme

Raymond PatrickRaymond PatrickRaymond Patrick

La vibrante città colombiana emerge dal suo burrascoso e complicato passato per dipingere un colorato futuro. Da centro del narcotraffico a polo d’arte e cultura. E le opere oversize di Fernando Botero ne sono la plastica rappresentazione.

In qualità di visitatore di musei sono decisamente impaziente. I dipinti per me non sono molto diversi quando li vedo dal vivo o su un libro. Solo per un artista faccio eccezione: Fernando Botero, «il più colombiano degli artisti colombiani» come lui stesso si è definito. Grazie a lui Bogotá è inserita nella mappa mondiale dell’arte e il museo a lui dedicato in città è entrato nel mio radar personale. Dalla cima del Monserrate (una montagna di oltre 3000 metri che domina la capitale colombiana) la vista sulla città è impressionante; sembra un’enorme trapunta colorata e scintillante. I miei occhi cercano il museo Botero, da qualche parte lì sotto, nel quartiere Candelaria, il cuore coloniale di Bogotá. Solo 15 anni fa la capitale era stravolta da una lunghissima guerra civile. Guerriglieri di sinistra e paramilitari di destra si sparavano a vicenda e, ovviamente, i proventi del narcotraffico arricchivano a dismisura pochi delinquenti. Basta pensare a Pablo Escobar, il celeberrimo e ora deceduto boss del cartello di Medellín che possedeva un jet personale, alcuni sottomarini e persino uno zoo privato.
«Le cose sono cambiate e molto», dice la mia amica di Bogotá Carla Baquero, grafica di 33 anni, mentre scendiamo verso la città e la Candelaria. Il quartiere «è dove hanno sempre vissuto i poeti colombiani e si sente ancora lo spirito di Simón Bolívar colui che liberò la Colombia», prosegue Carla. L’arte sovradimensionata di Botero non poteva trovare una casa più appropriata. Il museo è collocato in una casa coloniale sulla Calle 11. Non vedo l’ora di ammirare un dipinto particolare che mi ha sempre intrigato, la Coppia danzante. Come nella maggioranza delle opere di Botero raffigura persone obese anche se l’artista non le considerava così. Per lui avevano un “volume” sensuale, molto colombiano. La passione emerge in ogni quadro, insieme alla voglia di ironizzare invece che di prendersi sempre troppo sul serio, anche considerando la tragicità passata del luogo. Botero dipinge con tale abilità che ogni sua opera sta in bilico tra le belle arti e la pop art. Come Bogotá.

Ho sempre sentito di avere BogotÁ nel sangue. Forse dipende dal fatto che mia madre ha trascorso qualche anno qui quando era una teenager vivendo in una grande casa sopra la città. Nel 2009 ho iniziato a venire in Colombia per fare ricerche per un libro su Bolívar, l’appariscente rivoluzionario che liberò cinque Paesi dal dominio spagnolo. Con “El Libertador” sentivo una connessione viscerale: per la voglia di viaggiare insaziabile, per il senso della storia e della tragedia. Mi sono innamorato di Bogotá e, soprattutto, del quartiere di Candelaria, la culla del rinascimento colombiano in corso dove si incrociano le vite di campesinos e della nuova e rilassata élite. Questa zona è un avamposto della storia rimasto uguale. La città si è sviluppata da qui, tra quella che oggi è piazza Bolívar e la Plazoleta del Chorro de Quevedo. Per anni è stata l’area più pericolosa di Bogotá, adesso è l’epicentro culturale della capitale. Così come la sognava proprio Bolívar che ha vissuto in zona (la sua casa è oggi un museo) prima di ripartire.
Forse il rivoluzionario nato in Venezuela non riconoscerebbe gran parte della città che contribuì a sviluppare. Oggi è immensa e con decine di grattacieli a segnarne il panorama. Una mattina fisso un appuntamento con una persona molto impegnata nel miglioramento cittadino, Miguel Uribe, 28 anni, deputato al consiglio comunale di Bogotá nonché nipote di Julio César Turbay Ayala, ex presidente della Colombia. Uribe conosce perfettamente il clima che si respirava in passato: nel 1990 sua madre, la giornalista televisiva Diana Turbay, fu rapita dal signore della droga Pablo Escobar e, dopo cinque mesi di prigionia, fu uccisa nello scontro a fuoco con la polizia che stava cercando di liberarla. «A quei tempi eravamo prigionieri dei narcotrafficanti. Oggi non è più pericoloso qui di qualsiasa altra area urbana» racconta Uribe e prosegue: «Bogotá si è modernizzata, ma la Candelaria ha mantenuto la sua identità, con il restauro delle case, con una maggiore sicurezza, bar eccellenti, ristoranti che aprono e tanti nuovi buoni hotel». E ha ragione. Io soggiorno all’Abadia Colonial e il suo proprietario italiano Paolo Rocchi definisce Bogotá la San Francisco del Sud America con una nuova vena cosmopolita. Dalla lista nera delle città da non visitare, alla top list delle più visitate.

Camminando per la Candelaria la storia emerge un passo dopo l’altro. In piazza Bolívar, per esempio, gli spagnoli giustiziarono nel 1817 Policarpa Salavarrieta, una sarta che faceva la spia per gli indipendentisti. Oggi è un’eroina della rivoluzione ricordata da una targa. Poco lontano entro invece in contatto con l’aspetto più ludico della zona: un uomo sta suonando, simultaneamente, un tamburo sulla schiena, un flauto attaccato al mento e una chitarra al collo. Suona una salsa e la gente inizia a ballare. Intanto, al vicino mercato artigianale a sud della piazza si vendono figurine della Vergine Maria e dei Simpson. Vita in strada e vita nei tanti caffè. Dal Mitho Café dove bere crema di whisky e mangiare chorizo a El Gato Gris autonominatosi “Bohemia a Bogotá” dove provare cocktail all’assenzio. Il mio drink preferito si è però rivelato un classico: aguardiente (un distillato all’anice, ndr) da bere dopo aver dato un morso a una fetta di lime.
L’ultima sera la passeggiata alla Candelaria è fredda, eppure c’è tantissima gente in giro. Decido di andare alla Casa de Citas-Café Arte. Il posto rimbomba dell’eco di un tamburo accompagnato da una tromba. Sono i musicisti che si preparano alla serata. Il pubblico in attesa è un po’ particolare. «Bohémien», mi dice un’amica; pare che Bogotá sia diventata la loro città preferita. E la Casa de Citas, la casa degli appuntamenti, è il loro punto di ritrovo. «È mai stato un bordello come fa pensare il nome?», chiedo al proprietario Carlos Adolfo Gonzalez: «È una montatura», racconta Gonzalez, «in realtà sto cercando di sperimentare un altro tipo di bordello che coinvolga uomini e donne che si divertono insieme, con un bicchiere, un po’ di musica, balli e ‘tertulias’ (in spagnolo significa riunione, ndr)». Nel frattempo la band inizia a suonare la salsa cubana e la gente si riversa in pista, ma io non sono molto portato. Non sarò mai un salsero. A quel punto la mia amica mi fa notare che qualcuno è fuori tempo, che non sono tutti ballerini provetti. Forse non sono così male come penso. Improvvisamente mi sento impulsivo, proprio come un bogotano, e decido che è arrivato, anche per me, il momento di scendere in pista.

Fotografie di Raymond Patrick