di Gianluca Biscalchin | Francesco Pischetola
«Oltre l’Acquedotto vanvitelliano tutto cambia. Di là Caserta, qui il Sannio: un altro mondo». È il tramonto. Accanto a me Giuseppe Iannotti, giovanissimo chef, unica stella Michelin della provincia, guarda in silenzio il sole che muore dietro il grande monte Taburno davanti al suo ristorante. Sarà la suggestione dell’ora, ma quella massa rocciosa sembra confermare il motivo che mi ha spinto a raggiungere questa parte d’Italia così poco conosciuta: il mistero. Esiste il Sannio? O è solo un ricordo letto nei libri di storia? Quella di Benevento è la provincia più periferica della Campania, la meno citata (nel bene e nel male) dalle cronache, la meno conosciuta. Eppure è stata la tenace nemica di Roma e poi un potente ducato longobardo. È ricca di ottimi vini, di boschi, di castelli, di paesi d’incanto. Mi aspetto di trovare una terra ancestrale, forte, impastata di stregoneria e terribili guerrieri. Gli stessi che umiliarono i Romani alle Forche caudine e che si rassegnarono per ultimi, tra le province romane, a parlare il latino. E scopro che l’eredità dei Sanniti è ancora viva quaggiù. Giuseppe gira le spalle e torna ai fornelli del ristorante Krèsios, il suo elegante fortino di pietra, la sua trincea. Lo chef, testardo come i suoi avi, ha deciso di creare qui, in una provincia appartata e sobria, una cucina di ricerca, moderna. D’altra parte quel Gaio Ponzio Telesino che fece passare i soldati di Roma sotto i gioghi era di queste parti. Ora Telese Terme, dove mi trovo, offre quel piacere tanto caro ai nemici romani: le terme. Acqua e natura anche nel vicino San Salvatore Telesino, con il suggestivo Parco delle sorgenti del rio Grassano. Ma sono il cibo e il vino a raccontare meglio di ogni altra cosa il Sannio beneventano.
Per questo la mia prossima tappa è San Lorenzello, patria di ceramiche e dinosauri (da visitare il parco tematico a Pietraroja), ma anche di erbe aromatiche che si raccolgono sul monte Erbano, alle spalle del paese. Come il finocchietto che finisce nei leggendari taralli locali. Anche loro ammantati di mistero: le ragazze da marito portano in dote la ricetta segreta di famiglia. Poco distante un’altra sorpresa: Cerreto Sannita, patria di ceramiche e con un’ottima cucina, soprattutto per i funghi che si trovano nel Parco regionale del Matese. Parlando di porcini non si può non citare un altro borgo incantato: Cusano Mutri. Qui d’autunno esplode il foliage sannita: cerri, castagni e faggi si fanno rossi, arancioni e gialli. Ma è tutta la provincia a essere colorata. Verdissima d’estate e variegata da fine settembre in poi. Con la meraviglia dei vitigni autoctoni: aglianico, falanghina, piedirosso, sciascinoso, coda di volpe, cerreto, grieco, malvasia, fiano. Qui si produce la metà del vino campano. «È la nostra piccola Borgogna», ha decretato don Alfonso Iaccarino, maestro di tutti gli chef campani. D’autunno la valle ai piedi del Taburno diventa un patchwork di rossi e di gialli, di verde scuro e arancione, come un Klee fatto di vite.
Per capire la storia di questi vini vale la pena fare una sosta all’azienda La Rivolta a Torrecuso. Dal 1812 è attiva la fattoria della famiglia Carotenuto. Qui un tempo si producevano tabacco per i sigari toscani e vino da taglio che si vendeva in Francia. Si deve a questa famiglia gran parte della rivincita dei vitigni del Sannio. Qui, oltre che la falanghina del Sannio, l’aglianico e il coda di volpe, si produce un vino leggero e misterioso, il piedirosso. L’azienda organizza eventi dedicati alla vendemmia, alla potatura, un raduno di mongolfiere e molto altro (fattorialarivolta.it). Paolo Cotroneo, giustamente orgoglioso dei suoi vini, mi illumina anche sull’antropologia locale: «I sanniti non amano essere chiamati campani o napoletani. Sono orgogliosi della loro integrità rurale, dei contratti che si siglano ancora con una stretta di mano». Riparto al richiamo di uno dei prodotti più celebrati della provincia: il torrone di San Marco dei Cavoti. Il paese fu distrutto da un terremoto e poi ripopolato (nella seconda metà del Trecento) dai provenzali provenienti dalla città di Gap e mandati lì da Carlo I d’Angiò. Il torrone qui è una sfoglia con croccantino di mandorle e nocciole ricoperta con finissimo cioccolato fondente. Irresistibile. Si può comprare nel negozio storico della premiata fabbrica di torroni Borrillo, in attività dal 1891.
Finalmente prendo la strada per Benevento. Intanto, attraversando i paesini sanniti, si notano una pulizia, un ordine, una cura che rendono bene l’atteggiamento che hanno i locali per la propria terra. Orgoglio e amore. La conferma si ha nel capoluogo: Benevento è un gioiello curatissimo. Carico di memorie: nata sannita (o forse osca) la leggenda vuole che sia stata fondata da Diomede in fuga da Troia. L’impronta dei Romani, che cambiarono il nome da Maleventum in Beneventum, è ancora salda grazie allo splendido arco di Traiano e al teatro. Ma fu il dominio longobardo a renderla gloriosa. Il ducato di Benevento raggiunse un’espansione, nell’VIII secolo, veramente straordinaria. Di quel periodo rimane lo splendore della chiesa di S. Sofia (Patrimonio Unesco dell’umanità con tutti i monumenti longobardi), pianta stellata e magnifico chiostro con annesso il Museo del Sannio. Ma la memoria della città è legata anche alle streghe, leggenda nata dai riti pagani dei primi longobardi, e allo Strega. Il famoso liquore, che si gusta nell’omonima caffetteria in corso Garibaldi, è quello che ha dato il nome al più importante premio letterario italiano. Qui è sinonimo di vita placida, garbatamente provinciale, di chiacchiere al caffè, di struscio su e giù per il bel corso.
Dal capoluogo si circumnaviga l’onnipresente Taburno e si arriva a Sant’Agata de’ Goti, forse il paese più bello del Sannio e Bandiera arancione del Touring. In una spettacolare posizione, abbarbicata in una propaggine di tufo e limitata da profondi orridi, splende con le sue chiese in mezzo alla valle Caudina. Nelle vie del centro resistono molte botteghe storiche e ristoranti tradizionali dove si possono gustare le alici ’mbuttunate (ripiene e fritte, poi passate al sugo) e la cianfotta faicchiana (una specie di caponata locale). Qui viene a passare le vacanze un famoso discendente di santagatini emigrati: Bill de Blasio, il sindaco di New York. Ma il cittadino più celebre è Leonardo Mustilli che negli anni Settanta ebbe l’idea di imbottigliare la falanghina, ai tempi quasi in via d’estinzione, lanciando nel mondo uno dei vini di maggior successo degli ultimi decenni.
La seduzione enogastronomica del luogo mi spinge verso l’ultima tappa del viaggio: Melizzano, nel Parco del Taburno. Il paese ha la fortuna di avere una delle botteghe più rifornite della regione: quella dell’azienda agricola La Pampa. Immersa nel verde, questa casa di campagna offre, oltre alle stanze, un orto sinergico, trattamenti alle erbe aromatiche locali, mosto, sale marino integrale, fiori, olio d’oliva. La natura al suo meglio. I dintorni si possono scoprire a piedi o a cavallo. Nel ristorante si gustano i prodotti a km zero, raccolti dallo chef nell’orto. Dal fagiolo regina di San Lupo a quello bianco di Melizzano.
In bottega, al centro del paese, Carlo Alberto Aldi può dare i migliori consigli su cosa comprare per una spesa gourmet. Primo di tutti l’olio extravergine di vernacciola, che ha appena ricevuto la dop. Ma l’elenco delle meraviglie alimentari è lungo: il pecorino di Laticauda, la cipolla di Bonea, la soppressata sannita, il prosciutto di Pietraroja. Una vera chicca sono i prodotti da forno del panificio Nocera in contrada Torello: farine antiche, erbe di montagna negli impasti e un glorioso tarallo dolce fatto col vino. Il cerchio si chiude tornando nella valle Telesina. Qui si trova la celebre mela annurca, anche lei a rischio d’estinzione fino a poco tempo fa. Molti di questi sapori si possono gustare al ristorante Foro dei Baroni a Puglianello o al ristorante del resort Aquapetra di Telese, dove lo chef Luciano Villani, dulcis in fundo, cucina i prodotti dop e igt del territorio.