Texas. Lo Stato dell'arte

La terra promessa dei cowboy e dei petrolieri si rivela un pozzo creativo. Sia nelle metropoli sia in pieno deserto, la sorpresa più grande è la massiccia presenza di opere d’arte contemporanea. Da scoprire on the road

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Petrolio e cowboy, football americano, basket e bistecche. J.R., suo fratello Bobby e la famiglia Bush. L’omicidio di Kennedy e Chuck Norris. Le associazioni mentali immediate col Texas risultano queste dopo un circoscritto sondaggio tra parenti e amici. Ma è proprio per disattendere le constatazioni amichevoli che uno deve avere il coraggio di dimostrare che sotto la scorza da duri i texani hanno qualcosa in più da raccontare. Con un itinerario on the road si scopre, infatti, che qui il fil rouge che collega grandi città e minuscoli villaggi nel deserto è l'arte contemporanea. Questo grazie all’impegno e alla “visione” di alcuni personaggi giunti in Texas dall’Europa o da New York e desiderosi di esportare il loro senso del bello, per poi trovare terreno fecondo anche in mezzo al deserto. Ma andiamo con ordine.
Sul territorio di questo immenso stato, grande due volte l’italia e secondo solo all’Alaska per dimensioni, è successo di tutto. Là dove scorrazzavano cheyenne e comanche son passati messicani e coraggiosi coloni tedeschi, allevatori trasformati in petrolieri e rivoluzionari repubblicani. Il Texas è la perfetta incarnazione del mito della conquista, della lotta per la felicità, delle terre sconfinate. È chiaro, di cowboy in giro se ne vedono pochi (non basta indossare stivali e cappello per esserlo) e chi è diventato miliardario col petrolio spesso ha venduto a multinazionali, anche straniere. Però gli spazi sconfinati son rimasti e anche molti soldi. Per questo negli ultimi anni si è assistito a una migrazione che dalle città del Nord degli Stati Uniti ha portato qui migliaia di professionisti e studenti, intellettuali e artisti. «La vita costa meno, il clima è più piacevole e ora c’è anche molto da fare»: Katy Kleinhans dopo anni trascorsi in California e a Chicago ha scelto Houston, trasformandosi anche in Greeter, ovvero volontaria che accompagna alla scoperta della sua città i turisti in visita. In una giornata di sole e caldo, dimostra che la scena artistica della città è vibrante. Tante le gallerie che, proprio da Chicago e da New York hanno deciso di aprire qui la loro sede al Sud. «Follow the money», segui i soldi e troverai collezionisti. E qui i soldi ci sono. La crisi li ha appena sfiorati e con l’obiettivo dichiarato di raggiungere la completa indipendenza petrolifera entro il 2015, gli Stati Uniti interi sanno che sul Texas possono contare.

L'oro nero segna il territorio del nord ma a Houston si respira una buona aria. Anche grazie a una coppia di ricchissimi filantropi e mecenati dell’arte che, dopo una vita a Parigi e una tappa a New York, hanno scelto proprio Houston come città d’adozione. L’hanno amata così tanto da decidere di lasciare alla comunità la loro incredibile collezione. I de Menil sono il simbolo tangibile di una scelta texana orientata alla condivisione. Dominique de Menil, in particolare, aveva una visione che andava oltre il senso del bello. Nel 1964 chiese al massimo pittore vivente americano dell’epoca, Mark Rothko, di collaborare alla realizzazione di uno spazio meditativo multiconfessionale. Una cappella ottogonale con 14 enormi tavole dipinte prevalentemente di nero e viola. All’interno, in un giorno qualunque, non vola una mosca. C’è chi osserva, chi prega, chi disegna. Qui si celebrano anche matrimoni di qualsiasi religione, si fanno lezioni di yoga, si invitano premi Nobel a parlare. Arte da meditazione. Basta non pensare che Rothko, depresso cronico, si uccise prima ancora dell’inaugurazione. La stessa signora de Menil chiamò un giovane Renzo Piano per progettare la sua fondazione in grado di ospitare l’immensa collezione. Da allora Piano negli Stati Uniti ha realizzato musei ovunque. Buon per lui. Immersa nel verde e circondata da un padiglione dedicato a Cy Twombly e uno a Dan Flavin, la struttura invita al relax e alla contemplazione. Un po’ come lo Skyspace di James Turrell che, nel giardino dell’università, al tramonto e all’alba immerge nel colore i silenziosi spettatori che si sdraiano a guardare in su, questa costruzione un po’ spaziale, molto meditativa.
Quasi come un viaggio su un pullman Greyhound, anch’esso elemento del mito americano, fino a San Antonio. Qui tutti vengono per l’Alamo, dove si svolse una fondamentale battaglia per l’indipendenza dal Messico, i bambini vanno in giro con il cappello alla David Crockett, eroe dell’evento impersonato anche da John Wayne al cinema, e si va in giro a piedi costeggiando i tanti canali della città. Camminando si arriva anche al museo d’arte ospitato in un ex stabilimento della birra Lone Star. La collezione è importante, ma poi ci si accorge che è fuori che i messicani alla fine in questa città hanno vinto, perché la vendita di cappelli da mariachi supera quella di copricapi da cowboy e perché l’arte più bella è quella dei murales.

Il Messico diventa compagno di viaggio per circa 400 miglia (oltre 600 chilometri) seguendo la Highway 90 per arrivare nel deserto nella Big Bend Country a Marfa. Il cartello dice duemila abitanti o poco più, il nome pare sia di ispirazione letteraria (il dibattito è aperto tra Dostoevskij e Verne). C’è un solo incrocio con un semaforo lampeggiante. Un supermercato, un minimarket bio, una libreria, una stazione radio, un giornale locale, un hotel (El Paisano, dove fu girato Il Gigante con James Dean), qualche motel, una brasserie svizzera, un food track (i camioncini del cibo) che propone felafel e pollo, una pizzeria, un campeggio dove si dorme nei tepee, le tende indiane. Intorno il deserto per centinaia di chilometri. Che ci faccio io qui? Dopo tante ore in macchina su una strada dritta e deserta la domanda sorge spontanea. Deve averlo pensato anche l’artista Donald Judd che, al culmine della sua carriera a New York, decise di acquistare degli hangar abbandonati dell’aeronautica americana per realizzare il suo sogno: esporre le sue monumentali opere di acciaio e cemento e invitare gli amici artisti a fare lo stesso (Dan Flavin e John Chamberlain per esempio). Il risultato è probabilmente la più insolita, originale, visionaria galleria d’arte del mondo che si sviluppa dentro i vecchi spazi della base militare e nel deserto. Tra javelinas (piccoli cinghiali) e cervi, con indicazioni di stare attenti ai serpenti, la scoperta avviene un passo alla volta sotto il sole del deserto, tra cespugli secchi che rotolano. Il Far West da Cavaliere elettrico, come nel film con Robert Redford. Da un momento all’altro ci si aspetta che sbuchi Clint Eastwood nei panni del cowboy solitario, ma invece qui si incontrano a frotte giovani artisti che studiano a Berkeley, intellettuali di Boston, cittadini del mondo che hanno scelto Marfa perché si sentivano a casa nel nulla. Oltre alla Chinati Foundation di Judd, la cittadina nel nulla ospita molte altre gallerie che organizzano vernissage, festival, cinema all’aperto, stage per giovani creativi... E la popolazione locale si mischia alle frotte di artistoidi senza soggezione particolare. Quando hai il deserto intorno e la siccità come problema non stai a preoccuparti di tatuaggi e piercing. Una cosa è certa: in poche ore si passa dal che ci faccio io qui a «non me ne vado più». Fa niente se questa mattina non c’era l’acqua in motel e camminando tra le opere ci si ustiona il collo (in vero stile redneck, collo rosso, non proprio un complimento da queste parti, affibbiato ai contadini razzisti e poveri di tutto il Sud americano). L’energia è alta e non c’entra il petrolio. Qualche anno fa una delle gallerie della città, la Ballroom Marfa, invitò due artisti danesi, Elmgreen e Dragset a realizzare un’opera nel deserto, nei pressi del villaggio di Valentine, 40 miglia da Marfa. Decisero di costruire un negozio finto di Prada. Con vetrine, borse, scarpe e tutto il resto. Un miraggio per fashion victim. Un miraggio che scatena anche una risata colossale per la sua capacità di dissacrare e ribaltare tutto.
 

Andarsene da Marfa è talmente difficile che ci vogliono altri 300 chilometri in auto e un volo di un’ora per arrivare a Dallas. Lo shock è immediato. Grattacieli, luci, enormi freeway piene di enormi macchine. A una più attenta osservazione si coglie infatti qualcosa di peculiare: molti degli edifici sono firmati. Qui Prada non c’entra, ma i migliori architetti sulla piazza sì. C’è Renzo Piano, che ha realizzato il Nasher Sculpture Park. C’è I.M. Pei (quello del nuovo Louvre), che ha disegnato il Morton Meyerson Symphony Center. C’è Foster, con il centro per le arti performative. C’è Koolhaas con il Dee and Charles Wyly Theatre. Non ho percorso nemmeno un miglio in città e mi gira la testa. L’Art district di Dallas è il più grande degli Stati Uniti. Una decina di anni fa hanno deciso di primeggiare e ci sono riusciti con collezioni interessanti e spazi per l’arte performativa di eccellenza. Ora stanno anche costruendo nuove abitazioni ecofriendly in centro (Downtown) per artisti e architetti. Non me l’aspettavo e mi turba ammetterlo, ma il petrolio ha anche effetti collaterali positivi. L’ultima sera texana mi ritrovo alla proiezione all’aperto, nel nuovo parco costruito sul tunnel dell’autostrada, di Intrigo internazionale. E tutt’intorno nemmeno l’ombra di un cowboy.